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Piccola enciclopedia finta

Le voci

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Due brevi storie

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Aceto <a-cé-to> s.m.
Prodotto della fermentazione acetica del vino o di altri liquidi alcolici, ...

ETIMO
Di ignota origine, del termine si ricordano due tradizioni, una raccolta dall'antropologo N. Bohr nel 1736, l'altra, meno nota, riportata dal latinista E. Fermi nel 1678.

C'era un paese, tempo fa, piuttosto noto in tutta Italia, ai tempi in cui la lingua stava nascendo e ognuno dava alle cose il nome che poteva, pescando dal latino, intingendo nel sannitico, acquisendo dall'arabo o copiando dal francesco, per non parlar delle teute acquisizioni.
Ebbene, in quel paese s'era fatto un benessere alla buona, del tipo che non rende, almeno alla prima generazione, indifferenti o perfino ostili ai poveracci.
E un poveraccio, tale Ceto, era noto a tutti in paese, tanto che veniva spontaneo, se qualcosa avanzasse, preoccuparsi di fargliene avere.
Era così piuttosto comune che si mandasse a Ceto un boccone o un sorso, se capitava di poterne fare a meno.
Siccome però di bocconi o sorsi in eccedenza non sempre ce n'era, capitava che a Ceto andasse un pane secco o un vino da troppo tempo aperto; in questo modo divenne costume dire che era "andato a Ceto", o più semplicemente era "a Ceto", di tutto ciò che di fatto non era più buono.
Non sappiamo che pensasse, il buon Ceto, se mai gli arrivasse un che di incommestibile ma quand'egli tolse il disturbo, come siam tutti costumati a fare, l'abitudine a lui dei sopravvissuti e sopravvenuti compaesani non venne meno, anzi s'accrebbe e trasfigurò: ogni qual volta c'era un tozzo raffermo o un goccio andato a male, si diceva che era ormai "a Ceto", come a dire defunto all'alimentazione.
Non è chiaro il motivo per cui al solo vino sia rimasta appiccicata l'espressione; si pensa che, il paese essendo centro di commerci vinicoli, fosse più probabile il caso di un calice perduto che quello di un boccone malandato. O, proprio a causa del commercio, fosse comune che un acquirente, onde spuntare un miglior prezzo, definisse prossima ad essere "a Ceto" la partita da acquistare.
Da questo uso, a chiamare "aceto" il risultato dell'ammaloramento, il passo fu breve.

Un'altra possibile origine deriva dalla lingua latina; nuovamente dalle usanze di un paese interessato al vino; e, ancora una volta, dai poveracci.
Con un richiamo al detto di Seneca: "ad coetum geniti sumus", si usava destinare "ad coetum (pauperem)", cioè "al ceto (povero)" una quota di beni che i laboriosi commercianti si toglievano di bocca per mantenere gli straccioni nullafacenti e zittire le velenose insinuazioni di quanti, forse per l'invidia generata dall'insuccesso, tentavano di screditare chi aveva evidentemente, che i lor, maggiori pregi(1).
Fu così che essere "al ceto" divenne sinonimo di qualità scadente o degradata e poi, come nell'ipotesi sopra riportata, e con una contrazione tutt'altro che inconsueta, servì a descrivere il vino oramai imbevibile.

 

(1) si riporta qui quanto fu scritto da un cronista del tempo, senza sposarne le tesi.

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Acropoli< <a-crò-po-li> s.f., invar.

Parte alta di una città, detta così la zona dei templi di Atene. Dal greco Acròs, che vuol dire alto, e Polìs, che vuol dire polli. Come sentenziò l'oracolo, quando gli ateniesi chiesero alla dea dove avrebbero dovuto costruire il suo tempio: "Là dove i polli voleranno, colà voi l'erigerete!". Non esistono prove sicure che i polli abbiano mai volato in epoca storica, perciò le interpretazioni si rivolgono essenzialmente in tre direzioni: o che dei polli siano stati portati fin lassù da un improvviso turbine o da altro fenomeno fisico, fatto assai improbabile anche tenendo presente l'elevata sismicità del territorio ellenico; o che siano stati accompagnati in una processione simbolica dai cittadini di Atene, ciò che però continuerebbe a lasciare senza spiegazione la scelta effettiva del luogo; ovvero che il "volo" sia avvenuto con l'assistenza di alcuni ateniesi, per esempio, come qualche studioso vorrebbe, sfruttando il non ancora perduto segreto del volo di Icaro: alcuni si sarebbero innalzati in volo fino ad essere nascosti dalle nubi, e da lì avrebbero fatto cadere dei polli proprio nella zona di futura costruzione del tempio. La ragione di ciò sarebbe semplice: i proprietari dei terreni destinati alla costruzione del tempio avrebbero ottenuto un grande guadagno dalla vendita allo Stato o, in caso di forzata donazione, una grande influenza come cittadini devoti e disinteressati. Guarda caso, i pochi possessori di polli nella città di Atene, i proprietari di terreni della collina e gli ascoltatori dell'oracolo erano le stesse persone. A quei tempi, ad assistere alle esibizioni della Pizia (o come diavolo di chiamava la profetessa) erano i più facoltosi della città, e fra essi si trovavano quei pochi fortunati che traevano enormi guadagni dal commercio di polli, da cui il termine Oligopolio, dal greco Oligòs, pochi e dal solito Polìs, polli, cioè i pochi che possono permettersi di mangiare polli. Il resto della popolazione ateniese, invece, andava matto, in mancanza di meglio, per le capre, cosa che, si dice, fu alla base del fatto che nella guerra contro Sparta fecero una figura... barbina!

Un'altra ipotesi vuole la frase pronunciata da quei minoici che, secondo una teoria, esercitavano il controllo prima che la loro civiltà crollasse. Sicuri che i popoli sparsi non fossero in grado di unirsi a Stato, men che meno fondare una capitale ed erigere templi, quando Teseo dichiarò la sua intenzione ribatterono con l'ovvia battuta: "Sì, quando i polli voleranno!". In un antico frammento rinvenuto recentemente e chiamato "Il discorso di Teseo" si legge che l'eroe, presentando i templi appena eretti ad Afrodite Pandemos, avrebbe detto: "Ecco, Minosse, dove i polli di Atene volarono!".

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Comandante <co-man-dàn-te> s.m. e f.

Da "con-", insieme, e "mandante", che manda. Termine nato in epoca medievale, quando bisognava dare una spiegazione filosofica (ma spesso ideologica) ad ogni disposizione. L'autorità monarchica era assoluta, nel senso che poteva tutto, ma anche nel senso che non ammetteva condivisione.
La possibilità che qualcuno obbedisse ad altri che al re non poteva essere ammessa tanto semplicemente, ma solo dopo aver calcato l'accento sull'origine del potere di un suddito. Concetto che nasceva spontaneamente dall'idea che anche il re ricevesse "mandato" da più alta potestà, e che nella sua applicazione portò al proliferare di una mentalità da "sergenti" in chiunque fosse sia pur transitoriamente investito di minima autorità.
Quest'esigenza di spiegazione, a parte le finezze di pensiero, era pragmaticamente sentita in ambiente militare: era infatti altra cosa che un condottiero pressoché inerme pretendesse obbedienza da soldati bene armati piuttosto che l'obbedienza ottenuta da un drappello di armigeri nei confronti di contadini ("non si contrastano le balestre coi forconi": antico proverbio francese. Poi i balestrieri di un re persero una battaglia contro gli arcieri di un altro e il detto cadde in disuso. Si cita di passaggio la voce che vorrebbe alcuni balestrieri, in rotta dopo lo scontro, cadere vittima di contadini armati appunto di forconi, ai quali prima avrebbero troppo saccheggiato i miseri raccolti).
Se, infatti, a bordo di una nave lontana da ogni costa, dei pari decidevano di regolarsi eliminando quello che dava ordini, era solo un fatto fra gentiluomini, ma dal punto di vista dell'armatore che ci aveva investito, era un evento di preoccupante frequenza. Si dettò così la norma che voleva ogni capo, soprattutto militare, essere null'altro che il re "in alia persona", dopo che era stata compiuta apposita cerimonia in cui il "mandante primo" della missione, cioè il monarca, assumeva come "mandante secondo" colui che di fatto avrebbe dato gli ordini. Ogni ordine del co-mandante era dunque ordine del re, e disobbedire a questo era disobbedire a quello, con la conseguenza che i rei avrebbero automaticamente patito condanne gravissime.

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Un tempo, nelle corti piene di nobiluomini inclini al litigio per futili motivi, i lauti pranzi venivano spesso trasformati in occasioni di duello. Perciò, il piacere della tavola era interrotto dalle dispute. Fu uno di quei sapienti di allora, che producevano massime per qualsivoglia occasione, ad affermare, nella lingua dei colti di allora, che degustare meglio le portate avrebbe ridotto i diverbi, sentenziando: "Degustibus non est disputandum".

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Écouter, verbo
Parola francese, dal sostantivo couteau, coltello; vale a dire scoltellare.

Termine in uso fino al 1525.
I re di Francia, nel tentativo di incivilire l'ancora rozza aristocrazia francese, ordinarono che ogni nobile e cortigiano che si fosse reso colpevole di particolari atti sanguinosi dovesse essere privato di quell'accessorio, allora tanto rappresentativo del proprio stato sociale quanto utile per la propria difesa personale, che era il coltello, ovvero la spada. Questo, in nome del principio allora piuttosto popolare del contrappasso, in base al quale una pena era riferita direttamente al tipo di colpa. L'iniziativa non sortì precisamente gli effetti sperati: un nobile scoltellato era facile preda dei suoi nemici; si capì ben presto che a volte conveniva mandare a morire un sicario da poco perché l'avversario venisse écouté, dopodiché questi cadeva facile e disarmata vittima di chiunque; un nobile écouté non poteva difendere neppure l'altrui onore, vedi gentil donzelle, e anche per questo decadeva nella di lei stima. Infine la norma fu del tutto superata durante i ben noti travagli che Francesco I e tutta la nobiltà francese passarono nella guerra contro Carlo V: un condottiero pur valoroso perdeva irrevocabilmente la stima dei suoi soldati, ancorché marmaglia, se si presentava écouté; pare addirittura che qualche danno l'esercito francese lo abbia subito proprio a causa del'intempestiva applicazione di questa norma. Inoltre, si sa che le abitudini introdotte a forza, se non piacciono ai destinatari, finiscono prima o poi per decadere. Un ultimo accenno a questa disposizione pare sia da trovarsi nella ben nota frase che Francesco I scrisse a sua madre dopo la definitiva sconfitta: "Tutto è perduto fuorché l'onore". Pare infatti, una volta fatto prigioniero, che l'unica cosa lasciatagli per riguardo alla sua maestà fosse uno spadino da cerimonia, tanto inutile a combattere quanto pregiato a corte.

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Perché lo schema orizzontale di una costruzione si chiama "pianta", come le cose con le foglie?

La parola risale al Medioevo, quando ogni costruzione doveva essere approvata dal feudatario del luogo o dal loro re, principe o che altro. Allora, siccome a quei tempi si doveva far mostra di sottomissione, altrimenti il potente non solo ti negava il permesso di costruire, ma considerava seriamente la possibilità di farti tagliare la testa, ogni essere umano (o servo) che volesse costruire alcunché doveva fare il "planctus". Da questo, a chiamare "planctum" il terreno oggetto della lacrimata, passando dal genere maschile al neutro, il cambio fu breve. È noto che la storia, e la letteratura, non la facevano i poveracci, che avevano al più da costruire uno striminzito "plancticellum", ma i potenti, che piangevano calde lacrime, magari per procura, di fronte al re per ottenere l'assenso ai loro "plancta" (neutro plurale). Quando due viandanti passavano davanti ai "plancta" di qualcuno, ignoranti com'erano, dicevano: "guarda che grossa pianta!", trasformando un neutro plurale latino in un femminile singolare burino. Il caso non è unico: anche Bibbia era in origine un plurale neutro (greco).
Ora, vi chiederete, come sapevano i due viandanti che quello era il luogo della costruzione? Ebbene, perché il progettista, a quei tempi, non aveva altro modo per segnare i punti chiave della costruzione futura che mettere delle PIANTE nei medesimi. È così che si è giunti all'identità fonetica fra i vegetali e ciò che essi indicavano.

 

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Taneda, Giuseppe (Peppe Ago Di Pino, 1861 - 1922)

Figlio di industriali della grappa, elaborò la famosa ricetta di un amaro al pino, segno precoce della sua inclinazione. Per dissensi familiari sulla corretta distillazione, lasciò la dimora dei padri e partì per il Giappone con le tasche piene di aghi di pino per rifarsi una vita. Gli storici discutono tuttora sulla quantità di aghi che dovette perdere durante il periglioso viaggio per mare (per notizie in merito, cfr.: G. Taneda, La mia vita, Bormio, 1918. Vedi anche: R. von Balthazar, Tracce di essenza di pino nei sargassi?, Bonn, 2002, e la successiva confutazione di W. Th. von Karajan, Macché sargassi!, ivi, 2003).
All'arrivo, T. dovette lungamente combattere i pregiudizi di una setta scintoista che vietava l'uso degli aghi di pino per scopi profani. A causa di ciò, fu costretto a lasciare Kyoto e cominciò il vagabondaggio che fu cagione della sua principale fama (cfr.: G. Taneda, cit.). Risale all'epoca dei suoi primi vagabondaggi l'ode "Il pino che non trova casina sua", diventata ormai l'inno internazionale dei coltivatori di pino.
In questo periodo di povertà, ma colmo di iniziative ed ispirazione, proseguì gli studi, già fatti in patria, sull'utilizzo degli aghi di pino come aghi da cucire. Pare che nei tentativi sia andata persa una consistente quantità degli aghi appartenenti all'eredità lasciatagli dalla povera mamma.
Non è tuttora chiaro se abbia iniziato la scalata del Fujiyama dal versante Nord o dal versante Est. Un tentativo di deduzioni dall'orientamento degli alberi di pino che avrebbe direttamente fatto crescere (Pinus Silvestris Valtellinensis) confrontato con quello dei più piccoli pini autoctoni (Pinus Nipponicus Communis), non ha dato frutti (né pigne) a causa della ben nota tendenza del pino di qualunque specie a voltare sempre le spalle alle fonti di calore. I pini del Fujiyama sono pertanto tutti voltati con la faccia a valle del vulcano.
Un certo mistero aleggia anche intorno alle modalità di semina degli aghi: chi vuole infatti (R. von Balthazar) che siano caduti da soli attraverso un buco astutamente praticato da T. nella tasca dei pantaloni (vedi la sua ricerca, Ritmi di semina e passo strascicato, Bonn, 2004, nella quale è pure riportato l'aneddoto giovanile di una caduta di T. da un pino, mentre ne raccoglieva aghi, che gli avrebbe procurato una lussazione permanente), chi ravvisò nella distribuzione degli alberi il tipico gesto del seminatore (W. Th. von Karajan, Strascicato sarai tu!, Bonn, 2005) come gli sarebbe stato insegnato dagli agricoltori del suo paese (la sua balia era infatti di origine contadina).
Altri utili contributi sono per ora impossibili, e le ricerche sulla biografia di T. sospese, a causa delle ben note vicende giudiziarie legate al duello fra i due capiscuola R. von Balthazar e W. Th. von Karajan (cfr.: Ministero di Grazia e Giustizia DDR, Atti dell'apertura dell'anno giudiziario, 2006).

Ch. von STROHEIM

 

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Telli, Augusto (1515, 1573)

Di famiglia facoltosa, ebbe modo, insieme al fratello Cesare [v. sotto: Telli, Cesare], di frequentare le più rinomate scuole di francescani del suo paese. Sempre insieme al fratello prese gli ordini, ma, mentre Cesare fu destinato quasi subito ad un convento in Germania, A. fu incaricato di gestire un priorato (o come diavolo si chiama) dalle parti del suo paese natìo. Non per questo i legami di sangue furono allentati, dal momento che fra i due si mantenne fino agli ultimi anni di vita di A. una corrispondenza fittissima. Ciò per due ragioni: in primo luogo la necessità di A. di chiedere continuamente consigli al più grande fratello circa la conduzione di un monastero secondo le mode recenti che venivano dal nord, e secondariamente per i consigli teologici che A. sentiva il bisogno urgente di mandare altrove, essendo ben poco accetti in patria (al proposito, v. B.Dylan: Le origini della Riforma). La corrispondenza procurò nei due stati una notevole notorietà, particolarmente al più scrivorroico dei due, A. per l'appunto, che era noto all'epoca come Fra' Telli d'Italia, per distinguerlo da un contemporaneo Fra' Telli di Germania che, secondo studi recenti, sarebbe stato nientemeno che suo fratello Cesare (v. W.Guthrie: Riformati la zucca!).
Il Telli fu inquisito per lunghi anni dai superiori del suo ordine, a causa del vezzo che aveva preso di indirizzare a misteriosi Fratelli di Germania la sua corrispondenza, espressione che il T. si ostinò a motivare come riferita ai francescani del convento transalpino (e transdanubiano), mentre i suoi accusatori sostenevano trattarsi di un richiamo alle già numerose schiere di sostenitori di quel Lutero che faceva il birichino laggiù.
Secondo alcuni studiosi, (v. B.Dylan: Riforma e Controriforma), i processi al T. avrebbero fatto molto scalpore, particolarmente per alcune irregolarità, che il popolo attribuì ai poteri ecclesiastici del tempo. La figura di T. sarebbe rimasta dunque, per più di tre secoli, come tipo di ogni vittima dell'inquisizione contro il libero pensiero di carattere sociale, e ancor più di Galileo, che in fondo si era limitato a muovere qualcosa. Ancora nell'800 il suo nome fu ripescato per un inno patriottico, in occasione della breccia di Porta Pia, allo scopo di celebrare le vittorie dei liberi pensatori contro il potere papale, con i noti versi: "Fra' Telli d'Italia / l'Italia s'è desta..." ecc. significanti appunto che il potere che aveva perseguitato il T. veniva allora abbattuto.
Altri (v. W.Guthrie: Mo' ti riformo io!), sostengono invece che l'espressione Fra' Telli in generale, era entrata nell'uso per indicare uno che si facesse sempre "fratare" (da cui l'etimo moderno "fregare"), come il T. e suo fratello, perché si narra che il superiore del loro primo convento, un po' tardo e sordo ma obbedito in tutto e per tutto, fosse solito iniziare ogni disposizione dicendo: "Fratelli, ..." e così qualche confratello astuto e malevolo, ponendo subdole domande, finiva sempre per incastrare uno dei due. Sembrerebbe che questa e nessun'altra sia la ragione per cui il maggiore finì in Germania e l'altro venne inquisito. L'inno patriottico suonerebbe dunque così: "non siamo mica fessi come te, caro Telli!", ciò spiegando anche il riferimento all'elmo del pagano Scipione alla strofa successiva.
La corrispondenza di T., pur di argomento piuttosto ristretto, spazia con una certa eleganza fra i vari generi letterari del tempo, con notevoli richiami di carattere sociale assai utili per ricostruire l'atmosfera di un convento di allora. Purtroppo pochi studi vengono attualmente fatti in materia, a causa di un deprecabile incidente avvenuto durante una lite fra studiosi (v. Corriere della Sera, 8/11/2016, pag. 3, l'articolo, a firma J.Baez: "B.Dylan e W.Guthrie non trovano l'accordo").

Ph. OCHS

 

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Wedding sost. ingl.
Da: weed, erbaccia. Termine oscuro dal significato assai probabile di "Andare per erbacce".

Di origine antichissima, questo termine si trova in letteratura, per la prima volta, nel Cantus Anglii, contenuto nel Codex Barbarum 1E (il quale, a dispetto del titolo datogli dall'erudito medievalista P. Green, non è scritto in latino ma in antico Anglio).
Non risulta un particolare interesse per le erbacce (erbe non commestibili) da parte delle antiche popolazioni britanniche; gli studiosi pertanto si dividono fra due ipotesi: la prima (sostenuta anche da D. Kirwan), che per erbacce si intendesse tutto quello che non era stimato adatto ad una tavola ricca e pertanto rimaneva a disposizione dei poveri e dei vagabondi, o che questi mangiassero anche l'immangiabile; la seconda (caposcuola è J. Spencer), che le erbacce in questione venissero utilizzate quale materiale tessile di fortuna o per altre antiche lavorazioni. Sembra che tale raccolta venisse eseguita solo in particolari circostanze: risulta in modo indiretto dal fatto che ogni celebrazione di un wedding desse luogo a qualche forma di festeggiamento, il che ha portato a formulare nuove teorie: secondo la prima (Kirwan), i poveri non avevano il permesso di raccogliere nemmeno quelle erbacce che i signori rifiutavano, in quanto pur sempre giacenti in territorio di esclusivo loro dominio (vale a dire tutto il territorio di allora). Per la seconda (Spencer), la disponibilità di nuovo materiale segnava l'inizio, da celebrare ritualmente in modo acconcio, di qualche attività e ciò spiegherebbe gli accenni alla presenza di un sacerdote della religione via via predominante ad officiare almeno una parte del festeggiamento. Sembra quindi che l'interesse per il wedding fosse stimolato da qualche superstizione popolare.
Quali erano le conseguenze del wedding? Non sempre buone, almeno a giudicare dalle lamentazioni che leggiamo nel Planctus Contra Sermonem, di origine incerta: "mi imponesti un wedding quale riparazione / oggi mi ritrovo con altre bocche da sfamare." (Stanza 4, versi 2-3, trad. di M. Fleetwood) rivolto proprio a quel sacerdote che aveva officiato la parte sacrale del wedding. Qui il riferimento alla nutrizione farebbe propendere per la teoria alimentare del wedding; d'altronde, la faccenda della riparazione ha fatto pensare uno studioso fuori dagli schemi come J. McVie ad uno scopo espiatorio del wedding, in contrasto con entrambe le interpretazioni principali, visto che nuove disponibilità materiali sarebbero piuttosto da festeggiare.
Sembra invece sicuro che ci fossero tempi precisi in cui poter celebrare il wedding, come si dedurrebbe dal Beitch's Complaint, di autore ignoto, (per una spiegazione del termine Beitch, o Bitch, ancora più arcaico, vedere la voce corrispondente). In questo poemetto, di delicato e pudico tenore, una vergine lamenta di essersi lasciata convincere da un uomo a non attendere il ".. tempo del giusto wedding / né alcuno farà un wedding con me / oramai ..." (trad. Fleetwood). Da questo e simili testi possiamo confermare l'ipotesi che il wedding, più che un'attività della vita comune, fosse un avvenimento motivato da forti convinzioni morali. L'obbligo temporale indicherebbe un legame coi cicli ferrei della civiltà contadina (considerazione quasi banale, parlando di vegetazione).
Non abbiamo accenni più recenti alla cerimonia, che sembra avesse perduto di interesse almeno per i poeti, influenzati dall'estetica trovadorica e dall'ideale dell'amor cortese, più occupati con l'impegno sentimentale di ottenere i favori di una dama che a combinare un wedding evidentemente caduto in disuso.
Data per certa la natura popolare del wedding, qual era l'atteggiamento dei potenti (domanda allora cruciale, visto che ne andava della testa...)? Non abbiamo documentazione in materia, se non per delle Carte di Autore ignoto, successivamente tradotte da uno Scrittore che altrove dice di abitare vicino ad un Fiume, dov'è una Frase: "This Wedding shalt not be done!", appunto pronunciata da un potente a proposito del wedding organizzato da due poverelli (il titolo sarebbe qualcosa come "Promiseland Wedding", cioè Wedding alla Terra Promessa, infatti i protagonisti viaggiano parecchio, ma le pessime condizioni del manoscritto non danno certezza). Una conferma dell'atteggiamento negativo da parte dell'ordine costituito si troverebbe, secondo alcuni, nei numerosi documenti di epoca assai posteriore in cui è criticato un non precisato utilizzo di erba. Per ragioni che ignoriamo, vi è sostenuto che l'erba sarebbe dannosa per la salute, e il suo uso è perfino definito un vizio; il che però non ci illumina sull'uso che effettivamente se ne facesse.

(Bl.M.Wo.)

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Telenovela

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Progresso è un baldo giovane, dall'avvenire luminoso. Suo padre, Bisogno, è un uomo austero, all'antica, duro ma saggio. Ha cresciuto il figlio in ristrettezze, ma questo è stato per Progresso la migliore scuola: è diventato adulto ben conoscendo i suoi scopi ed anche i suoi limiti. La madre, Curiosità, è una donna allegra e serena, ha dato al figlio un qualcosa che mancava al padre, orientando i suoi studi verso cose se vogliamo anche frivole, ma ottenendo così che Progresso fosse un ragazzo simpatico e cordiale, oltre che serio e lavoratore. Un giorno Progresso incontra una donna che sembra la sua anima gemella: Scienza.
È una ragazza seria, fin troppo, ma assai convinta delle sue doti e che prende molto sul serio tutto quello che fa. Mentre Progresso è di famiglia modesta, Scienza viene da una delle più importanti della città, da lungo tempo abituata al successo in società, ma la differenza di classe non sembra impedire che i due giovani trovino subito un perfetto accordo. Scienza aiuta in molti modi Progresso nel suo lavoro e nella vita privata, e lui è convinto di aver trovato una compagna per la vita. Ella è figlia del signor Intelletto, un uomo molto in gamba, ma che pecca talvolta di prosopopea, disconoscendo le doti altrui. Intelletto non fa mai molto per rendersi simpatico, anzi, non perde occasione per far pesare la sua importanza (reale) in ogni circostanza, sia sul lavoro che in casa. In questo trova una valida alleata nella consorte, Filosofia, la quale vede nel marito una specie di semidio, ma che nel contempo lo usa per la sua propria vanità: pur trattandosi infatti di una donna dotata ed intelligente, indulge troppo spesso nell'autocompiacimento e, al pari del marito, non sa talora apprezzare le doti di persone diverse da lei.
Fra Progresso e Scienza è il classico colpo di fulmine: in tempi brevissimi convolano a giuste nozze. Ma non tutto va per il verso giusto. I rapporti fra i due consuoceri si guastano ben presto, in questo spinti dalle consorti che solo raramente trovano modo di collaborare e che più spesso sembrano fare apposta ad andare per strade diverse. Non parliamo poi dell'antipatia reciproca proprio fra Bisogno e Filosofia: questa sminuisce sistematicamente tutto quello che fa l'altro; questi, di rimando, trova sempre il modo di rovinare i piani di lei.
I litigi incrociati si sprecano poi se prendiamo i pessimi rapporti fra Curiosità e Intelletto: quella vivace, questo pedante; lui costruttivo, lei frivola. Non sembra esserci modo che i due intraprendano una qualche azione comune. I cattivi rapporti delle due famiglie portano un certo astio anche fra i coniugi: Bisogno comincia a rimproverare a sua moglie le spese, gli interessi mai placati, lei diventa sempre più impaziente e la casa le pare troppo stretta. È così che comincia ad accettare sempre più spesso la compagnia di un certo Sentimento, tipo senza arte né parte che bazzica la loro casa da tempo. Filosofia assume una specie di invidia concorrenziale con sua figlia per interessare il marito, nel tentativo di ritrovare la sicurezza in se stessa, ma questo le fa assumere atteggiamenti spesso radicali che a lungo andare stufano Intelletto. Questi a sua volta sembra non essere più contento della situazione familiare e si racconta in giro che abbia una relazione con Metafisica, una donna dai trascorsi ambigui e dagli ancor più ambigui propositi.
Tutto ciò non può che andare a scapito dell'armonia fra Progresso e Scienza: la frenetica attività di Progresso, i suoi risultati straordinari sono un chiaro effetto dell'ambizione di Scienza, che spinge il marito a non fermarsi mai, nel tentativo di ottenere sempre di più. Ma questo crea spesso attriti fra Progresso e i rappresentanti cittadini, che vedono ormai in lui niente altro che un arrampicatore che, pur di ottenere qualcosa, sarebbe disposto perfino a radere al suolo il paese.
Le cose si complicano alla nascita di un figlio. Il suo nome è Spreco. La sua vivacità ricorda per molti versi la nonna Curiosità, ancora giovane e pimpante, ma il fatto di essere cresciuto in una famiglia agiata che non gli fa mancar nulla lo rende antipatico agli occhi di Bisogno, e questo diventa un altro motivo di litigio fra i due. Da quel momento Curiosità finisce per accondiscendere tanto ai capricci del ragazzo, un po' perché vede in lui qualcosa che le somiglia, un po' per una specie di risentimento verso la saggezza antiquata del consorte. Ciò non fa che rendere i suoi rapporti con Filosofia ancora peggiori. Il malumore ed i litigi sono ormai all'ordine del giorno, Filosofia comincia a rendersi conto che proprio il matrimonio di sua figlia l'ha messa un po' in difficoltà nello svolgere il ruolo una volta così importante negli affari di famiglia, e ormai, non potendo più essere al loro centro, cerca soltanto di creare impacci artificiosi a tutte le attività, solo per poter dimostrare di essere ancora molto importante, ed in ciò trova un alleato imprevisto proprio in Sentimento: l'oscuro faccendiere è sempre in cerca di qualcuno da aizzare, all'unico scopo di sentirsi dare importanza.
Inutile dire quanto un simile individuo sembri sfruttare le persone, ma finisca poi per essere lui sfruttato per i fini di quanti, molto più furbi, intelligenti o volitivi, ne sfruttano le pure scarse capacità. Gli affari delle due famiglie sono nei guai: i tempi cambiano, le strategie che avevano fatto del signor Intelletto e consorte una famiglia agiata non sembrano più incontrare successo nel paese (si scoprirà poi che proprio il viscido Sentimento, alleato di tutti, sta spandendo ai quattro venti zizzania nei confronti dei due), mentre la solidità della coppia Bisogno-Curiosità, che li aveva fatti emergere, non dà più i frutti di una volta.
Il matrimonio e le attività di Progresso e Scienza ormai procedono stancamente; i due vivono della rendita di passati splendori e badano solo che il viziato Spreco non si cacci nei guai. Per ora la presenza di un secondo figlio, Ulteriore, non cambia il quadro; egli è troppo giovane ed inesperto, non si è fatto conoscere in società e i familiari sono ancora troppo presi dai loro sogni di un mondo lontano... ma sta crescendo. Riuscirà lui, con la sua novità, a far fronte alla decadenza di un'intera dinastia? Lo saprete alla prossima puntata.

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Il Saggio Sulla Montagna

 

In un certo paese, in una certa epoca, c'era una montagna; e proprio sulla cima della montagna, si diceva, si trovava una caverna. Dentro la caverna, raccontavano, viveva da tempo lunghissimo un saggio di cui nessuno sapeva niente, tranne che stava lì, da lontano contemplando le vicende umane. Un uomo stava scalando la montagna.
Era arrivato da molto lontano, con l'aria di chi ha una fretta enorme di fare qualcosa. Nei suoi modi c'era la furia di una rabbia a lungo trattenuta, ma ormai incontenibile. Cominciò a scalare il monte appena arrivato, senza preoccuparsi di fare una sosta per prendere fiato. Saliva con furia, ansimando; all'inizio l'ascesa era dolce e facile, poi divenne via via più ripida e il terreno si fece aspro, ma l'uomo non pareva rallentare: si aggrappava ad ogni cespuglio e spuntone di roccia con forza. Alla fine arrivò sulla cima. Trovò la caverna del saggio, vi entrò di volata e si pose faccia a faccia con quell'ometto, vecchio vecchio, pieno di rughe. Restò fermo appena il tempo necessario a vedere quell'esserino, lui così robusto e fremente, piccolo, tenero, ormai essiccato dal lungo vivere solo e fermo. Si scagliò nei suoi confronti, verso di lui tanto sereno, gli sputò le sue sofferenze, gli gridò il suo dolore, gli pianse perdite e sconfitte. Fu una furia di sofferenza e di angoscia e paura; fu noia, fu vuoto, fu senza senso. Gli disse, a quel minuto, pacato osservatore, di tutte le grida che aveva raccolto nel suo viaggio, tutte le lacrime che l'avevano bagnato nel toccarlo. Fu un ciclone di rabbia a lui, a quell'innocente osservatore che credeva nella pace e stava quieto nella sua pace.
Alla fine l'uomo rimase ansimante, con gli occhi spalancati ad attendere, come dire, con sfida: "Cosa puoi rispondere a tutto ciò?". Il vecchio rimase per un attimo in silenzio e l'uomo credette che non l'avesse sentito; poi si mosse per dire solo qualcosa, come un sospiro: "Anche a me dà un po' fastidio quando le cose vanno male...".
Il vecchio abbassò la testa. L'uomo si avvicinò, lo guardò attentamente e capì che era morto. Allora, lo raccolse e lo portò fuori dalla caverna. Scavò una buca e lo seppellì. Dopo, andò a sedersi nella caverna. Mentre stava lì, assaporando cose strane, si domandava se il prossimo avrebbe capito...

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