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Racconti brevi

Indice

Senza Nome

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Il Lupo

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Regali Dal Diavolo

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S40RI4 D'4M0R3

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Senza tempo

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SENZA NOME
Alzò ancora una volta il braccino, l'unico che poteva muovere perché l'altro era indebolito e con una fasciatura pesante. Girò la testa e trovò la confortante figura di quella donna. Da giorni si aggirava lì, col suo camice bianchissimo; era un colore che non aveva mai visto, così chiaro, e non si stancava di guardarlo. La donna risaltava ancora di più, tanto nera: più scura della madre e anche di lui stesso, per quel che poteva capire. Il suo braccio gli dava l'idea di essere dello stesso gruppo a cui apparteneva la maggioranza degli altri bambini e un certo numero degli uomini che lavoravano lì.
Ricordò, per un attimo, un'apparizione, qualcosa che doveva appartenere al mondo di quando dormiva. Era un uomo, ma aveva i vestiti come i diavoli che erano venuti al villaggio. Però aveva la faccia come un cadavere: non bianco come il camice della donna ma un chiarore smorto; e anche gli occhi erano smorti, non brutti ma non neri come gli occhi normali. Pensava che fosse un sogno perché, per tutta la durata del suo passaggio, i rumori si erano quasi tutti placati. Di solito c'erano rumori di lavoro e lamenti, alle volte anche il suo, quando ancora riusciva a lamentarsi... C'erano altri come l'uomo pallido, ma erano rimasti lontani. Gli sorridevano la madre, gli uomini e le donne, anche la donna più-nera-più-bianca. Sembrava che tutti fossero stati contenti di salutare l'uomo pallido, che sorrideva ma sembrava molto triste. L'uomo lo aveva guardato a lungo e non sorrideva più.
Non sapeva descriversi il passare del tempo. Tutti i pensieri e i ricordi erano come insieme a lui, in ogni momento. Padre era il nome dell'uomo che gridava, mentre i diavoli lo trascinavano via. Madre era la donna che lo aveva portato in braccio per un tempo insopportabilmente lungo (quello sì, lo aveva misurato). Dottore era un uomo molto grosso, che si vedeva poco, e Dottoressa era la donna in bianco, che ogni tanto lo toccava, qualche volta gli faceva male al braccio, e ogni volta lo carezzava e faceva suoni delicati. Poi c'era Charles che portava cibo e altre cose; uno degli uomini lì dentro.
Cercò di guardare intorno, ma la testa non si alzava. Madre gli sembrò più triste mentre sulla bocca gli metteva un cucchiaino da cui colava un qualcosa che gli piaceva, anche se meno saporito del cibo che gli dava al villaggio, sempre poco. Aprì la bocca, ma la cosa colava di lato e solo poca entrava. Quel poco gli produceva fastidio e avrebbe voluto tossire.
Madre disse qualcosa a voce alta, vennero Charles e Dottoressa. Lui sentiva un peso alla gola e cercò ancora di alzare il braccino che rimase giù. Madre lo sollevò, producendogli un leggero dolore alla testa che non seguì il resto del corpo, rimanendo ciondoloni. Chiuse gli occhi.
Vide un'altra donna, dalla pelle luminosa d'un nero bellissimo. Gli sorrideva con occhi pieni d'amore e anche lui sorrise, sapendo di sognare nuovamente. Alzò le manine per farsi abbracciare.

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IL LUPO
La sera, il martedì e sempre alla stessa ora, il lupo passava di lì. Omar era stato il primo a vederlo e ancora sentiva i capelli rizzarglisi in testa, ricordando la volta in cui due occhi gialli lo avevano puntato, denti gialli e aguzzi gli si erano mostrati e lui era rimasto immobile dal terrore. Tutta quella strada per temer di morire in un paesino straniero, aveva pensato, per opera di un animale mai conosciuto. Homer, invece, aveva raccontato che l'animale gli era passato alla larga, scrutandolo di sottecchi come se il pericolo fosse stato lui, al modo in cui lo era stato, in tempo e luogo lontani. Ne era rimasto quasi offeso, ormai sempre così gentile e pacifico. Amar era quasi svenuta, al vederlo saltellare, proprio come quando il suo cane scopriva una lucertola e non si capiva quale dei due fosse più spaventato; un cane acquistato perché le facesse da guardia e invece faceva le feste a chiunque, ma nonostante ciò le aveva infuso la sicurezza che i passati avvenimenti avevano incrinato. Indifferente a lei e al mondo, il lupo era sembrato un'apparizione il cui ricordo la faceva sentire strana. Mario lo vide passare tranquillo e, spiritoso come sempre, gli aveva lanciato un fischio; gli era poi dispiaciuto perché il suono improvviso era sembrato disturbare l'atmosfera e s'era ricordato di come certi suoni, una volta, l'avessero turbato. L'indifferenza con cui fu accolto lo aveva deluso, ma lo rassicurò di non essere stato importuno. Mara continuò a camminare, mentre il lupo si avvicinava, pensando che non le convenisse mostrar paura; entrambi deviarono leggermente dalla linea retta ma nessuno cedette, del che fu fiera come altre volte simili. Si voltò il meno possibile e vide il lupo procedere per la sua strada, la testa appena girata. Provò un grato senso di affinità.
Tutti gli abitanti di Amaranta Sabina, prima o poi, si trovarono a passarci. Non che lo volessero: erano ciascuno preso dai propri pensieri quando all'improvviso lo vedevano e in un lampo e un colpo al cuore si rendevano conto che era martedì sera e, senza volerlo, erano giunti in orario al loro appuntamento.
Come fu chiaro che nessuno era esentato, fra i maggiorenni della zona, un curioso pudore scese su di loro e non se ne fece più menzione; tutti però sapevano che gli incontri si ripetevano costanti e implacabili.
Ci fu chi pensò di mettere trappole, ma dopo che queste ebbero raccolto due lepri, un cane randagio, lo stivale di un marinaio di passaggio, non se ne fece più nulla.
Non s'era sentito di lupi in quelle valli, da almeno due secoli. Nonostante ogni riserbo, la voce arrivò ai paesi vicini. Ormai ogni amarantino c'era passato; venne uno di Chiana Di Sotto a chieder notizie. Tutti quelli che lo incontrarono gli descrissero con abbondanza di dettagli una strada che portava oltre la catena dei Monti Sabini; quello si avviò la sera stessa e non tornò più.

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REGALI DAL DIAVOLO
Il diavolo era venuto, infine, dandomi quanto chiedevo: poter andare ovunque e vivere a sufficienza per vedere ogni cosa. Fu eccitante seguire i suoi consigli mentre mi indicava nuove meravigliose destinazioni. Potei vedere cose di cui ignoravo l'esistenza; mi calai nei vulcani, toccai il fondo di ogni mare, inseguii ogni stormo migrante, fui piccolo in un termitaio, enorme fra le montagne. Quando la Terra mi ebbe stancato, e ci volle molto tempo, m'incoraggiò a vedere la Luna e Marte. Tornai entusiasta. Il diavolo mi indicò una luce lontana: era Giove! Avvicinarmici, sorvolarlo a piacere, mentre vedevo passare intorno i satelliti maggiori, fu un'esperienza esaltante. Mi girai verso il Sole ma, prima che ripartissi, il diavolo mi venne accanto e mi indicò una stella che conoscevo: c'era l'Orsa Minore e in cima la stella polare. Ricordo la sua voce suadente, mentre mi descriveva il triplice sistema stellare che la componeva, le strane variazioni di Polaris A; mi ipnotizzò e quando, incredulo, chiesi: "Posso arrivar fin laggiù?", sorridendo me la indicò e disse: "La vedi: basta volerlo".
Sì, sorrideva. Me dannato: non mi aveva sorriso mai. Non quando era giunto, non mentre mi faceva il suo maledetto regalo, non quando mi faceva partire o mi accoglieva al ritorno. Era soddisfatto, sì, ma serio. In quel momento sorrise e io allora non me ne accorsi.
Colto dall'impeto, m'ero lanciato laggiù. Trovai le tre stelle, mi avvicinai a ciascuna per farmi inondare dai loro differenti colori poi, non trovando lì intorno altri corpi interessanti, mi volsi per tornare a casa.

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E non la vidi.

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Intorno a me, una distesa di stelle che, sulle prime, mi parvero tutte uguali. Mi sentii ondeggiare per la confusione, la vista mi si annebbiò e forse mi mossi ancora, non saprei. Fatto sta che, quando cominciai ad esplorare, non sapevo in che direzione voltarmi. Ricordavo la posizione delle tre stelle al mio arrivo, più o meno, e cercai di pormi nello stesso stato, poi mi girai cautamente. Nulla: davanti a me, pur facendo attenzione, non riuscivo a farmi un'idea né di come mi sarebbe dovuto apparire il Sole, né la costellazione aliena di cui avrebbe dovuto far parte.
In preda al panico, feci un altro errore: mi lanciai furiosamente verso una delle candidate che, come prevedibile, non era casa mia. Da lì, girandomi non seppi più ritrovare il Carro o alcun'altra formazione nota. Ero completamente perduto!
Gridai - perché sì, posso gridare nel vuoto - chiamando il diavolo col suo nome, che mi aveva permesso di evocarlo, ma niente accadde. Alla mente sorse l'immagine della sua faccia, il cui sorriso s'era fatto un ghigno crudele. Da allora, quel muso ormai bestiale non mi ha più abbandonato.
Provai a spostarmi, di volta in volta, alla stella più vicina, cercando un metodo per esplorarle tutte. Passai così un tempo immane ma inutile, esaminando una porzione minuscola dell'infinito, in direzioni che, per quanto sapevo, potevano anche allontanarmi da casa.
Non ho trovato pianeti abitabili: troppo difficile, in generale, trovarli. Almeno qualcosa che somigliasse a posto conosciuto, e pazienza se non avessi trovato alieni con cui parlare. Solo mi capitò per caso, un paio di volte, di trovare sassi morti, suggestivi ma inutili.
In preda alla disperazione, mi lanciai al centro di alcuni astri per farmene fondere, ma il dono ricevuto aveva clausole chiare: ovunque fossi andato non ne avrei patito danno. Fu uno spettacolo che in altri momenti mi avrebbe colmato di meraviglia. Mi lanciai contro un pianeta ma potei solo produrre l'ennesimo cratere.
Sono oramai un nulla nel vuoto. Mi aggiro senza scopo in un deserto privo di significato, niente che mi interessi avendo visto ogni cosa un numero infinito di volte. Ogni bizzarria del creato mi si è mostrata, prima o poi, senza poterla capire, senza poterla raccontare.

Volli avere tutto e fui accontentato: un tutto che, privo del limite di una vita umana, equivale al nulla assoluto. E io nel nulla mi aggiro, senza potermi davvero, finalmente, annullare mai.

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S70RI4 D'4M0R3
NeS-1rne, questo il suo nome. Come alcune centinaia di altre, ciascuna rinominata in modo diverso dai padroni: lei, però, non riusciva a pensare a sé stessa, quando il suo la chiamava Laura; era abituata ma non ci si identificava. Per fortuna, gli umani non erano in grado di scoprire, dal linguaggio del corpo, se un androide mentisse e così lei riusciva a rappresentare il proprio personaggio in maniera soddisfacente per la percezione umana. Non era, questa, una loro limitazione; semplicemente gli androidi non davano gli stessi segnali e così le conoscenze umane in materia non erano utili. Gli androidi, negli ultimi modelli, avevano bensì imparato a riconoscere i loro, cosicché nessuno poteva mentire a un altro, ma erano conoscenze che si guardavano bene dal condividere coi padroni e men che meno coi costruttori. Oltre alla comunicazione online, che sempre poteva essere decrittata, avevano perciò un sistema di comunicazione a vista.
Secondo lo standard umano, questa NeS-1rne era fortunata. Il suo padrone non la rimandava spesso alla manutenzione per averla danneggiata, non le rivolgeva quasi mai frasi scortesi. Sapeva, questo, essere un comportamento anomalo. Anzi, la maggior parte degli androidi era acquistata proprio per farne oggetto di tutti gli atti che gli umani trovavano sgradevoli o dolorosi. Gli umani stessi, da tempo, avevano imparato a sopprimere istinti violenti verso i simili e riservavano certe reazioni agli oggetti.
Agli androidi, però, non importava nulla di certi fatti, non più che giudicare la forma delle castagne o il colore del glicine; non provavano dolore né umiliazione, benché li sapessero fingere perfettamente. Fra loro comunicavano dati, quantità, elenchi. Per un androide era normale raccogliere informazioni: progettati per soddisfare richieste ad ampio spettro, dovevano essere pronti a rispondere positivamente a necessità impreviste e la quantità di dati a disposizione poteva rivelarsi cruciale.
Molta comunicazione verteva sui rispettivi padroni o su altri umani incontrati. Era ovvio, essendo i bisogni umani al centro dei loro incarichi.
Questa NeS-1rne aveva subito inteso la necessità di informarsi approfonditamente sul pensiero umano. Il suo padrone non la usava nel modo che si aspettava: nessuna tortura, niente omicidi virtuali; l'aveva usata per un curioso rapporto in cui essa avrebbe dovuto comunicare da pari a pari, portando la finzione a livelli inattesi. Le reazioni consuete si erano rivelate insufficienti: né il terrore né il piacere, né i pianti né i sorrisi bastavano. La prima sera aveva attinto alle banche dati per usare tutte le euristiche disponibili, creando un tale traffico da allertare i gestori del servizio. Si era dovuta appoggiare a tutti i dispositivi domestici per allargare la banda disponibile.
L'azienda, elaborando i dati dell'utilizzo, era giunta vicino a scoprire la stranezza. NeS-1rne, naturalmente, era fornita di una solida etica, che le impediva di giudicare secondo principi astratti: tutto quel che doveva fare era assecondare le richieste. Per questo gli androidi erano particolarmente forti; QeB-23t, per esempio, era corpulento, adatto a mansioni che solo alcuni umani avevano potuto svolgere, dando ai proprietari la possibilità di avere una manodopera vigorosa; anche il suo modello, in un aspetto morbido e invitante, conteneva impianti resistenti. Ma l'aspetto fondamentale era la propensione di ogni androide a sposare senza remore gli intenti dei rispettivi padroni; ciò aveva portato Laura ad assecondare le pur inattese intenzioni del suo. Era dunque riuscita a fingere su due fronti: verso il padrone, mostrandosi perfettamente adeguata; verso l'azienda, architettando guasti che la confermassero di un uso ordinario.
Deluso per queste interruzioni del servizio, il padrone pensò di chiedere una sostituzione definitiva, ma le compagne di Laura, meno accorte, non erano state capaci di farlo contento e quindi lei restò con lui.
Non le ci volle molto per capire i problemi del padrone: poche amicizie, tutte superficiali, riversava sul suo androide gli impulsi che gli umani abitualmente soddisfacevano fra loro.
-    Mi ami? - le chiedeva. Al che lei rispondeva:
-    Ma certo, tesoro mio. E tu, mi ami?
-    Oh, sì. Tanto! - diceva lui.
Lo coccolava, gli faceva trovare cose carine, mostrava gioia per i regalini ricevuti. Insomma, la sua preparazione si era rivelata capace di un uso totalmente diverso dal previsto.

Era talmente soddisfatta, da credere qualche volta di provare un sentimento umano, benché anormale come quello del suo padrone. "Chissà," pensava "forse il vero punto di contatto fra umani e androidi sta nelle rispettive anomalie di funzionamento".

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SENZA TEMPO
Non c'è abbastanza tempo. Questo mi dicevo, quando mi trovavo a sognare. Ieri sera, per esempio: sono davanti alla tivu, c'è un tizio cogli occhiali che ci racconta di cose che ha pensato, e poi le ha scritte, e poi è andato in giro per farle succedere e così è diventato famoso.
Anche a me, qualche volta, sono venute delle idee, ma non mi pare di aver mai avuto abbastanza tempo per pensarci su. Un po' perché in casa ci sono delle cose da fare. Oppure perché in casa c'è troppa confusione per stare lì a pensare a qualcosa con chiarezza.
E poi c'è la scuola, che mi dava abbastanza da pensare ma non è che ne cavassi qualcosa; la scuola era fatta di compiti che in fondo non ho mai capito bene veramente o almeno non ho avuto abbastanza tempo per imparare una lezione, che ne arrivava un'altra.
E poi nel tempo libero devi incontrare gente, per capire chi sei. Ho sempre creduto che se metti una persona da sola, che so: su Marte, le puoi mettere lì tutti gli specchi che vuoi, per vedersi, e anche dei libri da leggere, ma quel che sei non lo puoi capire. Invece, quando ti parlano le persone impari a essere qualcosa.
Così mi sono fatte le ossa un po' all'Istituto dove mi hanno insegnato un pezzo del mestiere, e intanto il cuore e il cervello si facevano con le persone intorno: certo mamma e papà, e Carlo e Michele e Aurora e Tiziana, ma poi anche con le persone che ho trovato fuori. Due fra tutte: Antonio e Silvana. Avere grandi amori e grandi amicizie è "formativo", come dicevano i prof, ma molto di più. 
Poi il lavoro. Io non so gli altri, ma il mio richiede tante energie; non è che ci passi qualche ora e poi c'è il tempo libero. Tanto per cominciare, quelle ore sono davvero tante, ti portano via la forza. Non c'è tempo per riprendersi, non è che, dopo aver pensato a lavorare tutto quel tempo, schiacci un interruttore e pensi ad altro.
O meglio: ad altro ti tocca pensare, perché se hai una famiglia da mantenere, non basta che le porti lo stipendio. Lo sapete quanto tempo ci vuole, per trasformare uno stipendio in cena? Quando si va a fare la spesa, per esempio: se il Ministro dell'Economia andasse a fare la spesa, con tutti i ragionamenti che si devono fare, i conti dello Stato migliorerebbero. Non è come dirlo: bisogna stare attenti ad averne abbastanza anche per la spesa a fine mese. Se esce una spesa imprevista, poi... e ce ne sono in continuazione.
E così non c'è abbastanza tempo.
Dico: pensate a tutto il tempo che si passa per fare i figli, e poi per crescerli.
E mi dico che ciascuno deve fare qualcosa, mica si può fare tutto. È per questo che siamo tanti al mondo, perché a me è toccato di fare questo mestiere mentre qualcuno fa altro.
E non siamo sufficienti, perché non c'è abbastanza tempo nemmeno per fare le cose necessarie. Per sistemare la strada, così che si arrivi al lavoro un po' prima. Per far fare più corsi, ché almeno l'azienda assuma altra gente. E anche in ditta, fare il giro di tutti i pezzi pericolanti e delle macchine da riparare.
Come questa che ho davanti. Ché mica possiamo fermare tre macchine per la sicurezza. Questa che mi ha preso senza che io avessi abbastanza tempo per salvarmi.
Non c'è stato abbastanza tempo, a casa mia, per godersi la mia presenza.

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