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Un incarico nuovo

Adeguatamente attrezzato: racconti per confrontarsi, e testi da cui raccogliere informazioni per il lavoro che ho in testa. Un ambiente a me estraneo, questa campagna solatìa di un paese tranquillo, questa locanda di gente cordiale per caso conosciuta: il minimo di superstizioso in me rimasto ha amato la confluenza d'un bisogno colla scoperta di questo incanto estivo.
Già da tre giorni creo. Leggo criticamente, annoto le idee per dopo farne un'esplosione di fatti e descrizioni da porre successivamente in un'opera completa e organica: il mio romanzo, il sogno che da un cassetto si riverserà senza meno nelle parole che descrivono, mettendolo in essere, un mondo che aspetta il suo fattore.
Già da tre giorni, frattanto, passa di fronte a me la figlia dei gestori, una fra i diversi piccoli qua intorno. Esce per qualche faccenda, o per andar a giocare cogli altri, ogni volta gettando un'occhiata curiosa, prima a me poi alle molte carte, al computer, alle biro.
"Stai facendo i compiti?" Ero tanto assorto, alla ricerca d'una similitudine, che non avevo notato la bimba, stavolta accompagnata, a un passo dai miei libri, lo sguardo intento di chi ha un che d'importante da fare mentre il coetaneo con lei fa correre gli occhi sul mio materiale.
Non faccio in tempo a risponderle; mettendo le sue cose accanto alle mie, dice: "Li facciamo insieme?". Anche l'altro aggiunge timidamente le sue, gli occhi spalancati a rinforzare la domanda.
Io non ho bambini e non avevo mai, fino a quel momento, pensato di occuparmene. Panico. Come parlar loro, cosa spiegare? Mi decido per una tattica prudente.
"Sono i tuoi compiti?" "Sì, la mamma ha provato a farli ma non c'è riuscita". Penso alla donna sorridente che mi ospita col marito e parenti le cui relazioni non avevo approfondito, ancor giovane ma sempre indaffarata tra casa, animali, ospiti, infanti; mi domando quanto abbia lei fatto compiti a suo tempo e, sapendo lontano il paese spopolato, concludo che anche i suoi studi siano lontani, negli anni e nel ricordo.
Nonostante la contiguità non avevo ancora avuto contatti con la prole del luogo: a tavola parlavo cogli adulti e da loro ero interpellato per argomenti da grandi, nessuno aveva fatto balenare necessità scolastiche insoddisfatte in quei musetti che tacevano da dietro il pesante tavolo troppo alto, nella cucina ampia e provvidenzialmente fresca.
Ora i libri pieni di colori, in caratteri grandi, con disegni ingenui, attraggono la mia attenzione. "Che classe fai?" "La terza". "Anch'io!", dice l'altro.
I compiti delle vacanze! Un'espressione che per me da sempre rappresenta un certo anno, e un certo libro, e un certo incontro: il primo innamoramento di un pulcino, per la ragazza che gli faceva ripassare le tabelline. Non posso deluderli, mi dico; per quel pomeriggio l'impegno consisterà in un imprevisto e pure usurpato ruolo di maestro.
I due birbanti devono aver fatto disperare a scuola, a giudicare dalla quantità di arretrati loro inflitti, dalla Bella Scrittura alla Storia all'Aritmetica: sulle prime ho sperato di dar loro una spinta perché andassero avanti da soli, ma il lavoro è tanto che una spinta sola sarebbe insufficiente. Va bene, allora: altri due giorni divertiti dal mio capolavoro. E invece, al terzo mattino dall'inizio del mio incarico la bambina arriva col suo piglio, tanto compreso da fare tenerezza, col solito compagno e seguita da un grandone impacciato e tre marmocchi più piccoli; poggia noncurante sul tavolo una pigna di quaderni e dice: "Devono farli anche loro". Non c'è richiesta, solo la constatazione di un dato di fatto.
Per un momento mi cullo nell'immagine: io mi alzo, assumo il tono solenne di chi è ad una svolta della Storia, non le favole per piccini ma quella importante, e alzando solo di un tanto la voce espongo le imprescindibili ragioni per cui devo lasciar librare il mio genio verso gli attingimenti superiori dell'Arte. Le mie ragioni si disfano tutte come un gelato al sole, mi vergogno un pochino per averne carezzato il fascino e così non mi alzo, prendo il primo libro dell'infantile mucchio e chiedo: "Di chi è, questo?". È di quel grande che appare il meno dotato, stessa classe della capobanda: mi dico che se riuscirò con lui riuscirò con tutti. Un leggero venticello fa tremolare due fogli del mio ponderoso, quanto ormai inutile, dizionario.

Com'è bello scoprire dentro di sé i significati di concetti fin troppo noti, cercando di elaborare esempi ed esperienze per trasmetterli, e quanto gratificante scopro il riso della bimba che ha capito!
Si può insegnare solo finché i marmocchi hanno energia, dopodiché bisogna escogitare attività collaterali, anche stupefacenti, in modo da riguadagnarne l'attenzione. Mi sono accorto dai primi minuti che nei monelli qua intorno un tono autorevole, un sussiego cattedratico, avrebbero solo indotto la noia o, peggio, il riso. Gli adulti, finora tanto assenti in cortile quanto i piccoli in cucina, capitano di là come per caso, incuriositi mentre si canta, si salta, ci si rotola. Anche il clima sembra avere sospeso le previste ostilità, onde concederci uscite giornaliere per lo studio e lo svago. Non ricordavo una stabilità simile dall'infanzia, ma allora i tempi erano molto dilatati e due giorni uguali sembravano un'era a se stante. Riesco quasi sempre a guidare i lavori, nonostante l'ondivago interesse degli infanti. Il gruppo è un segnalatore perfetto: se parlo troppo o troppo poco, se una cosa piace o meno, la reazione è sfacciatamente esplicita. Ciò che dissuade, colla possibilità d'un pernacchio, dalla tentazione di sentirmi una divinità nei confronti di piccoli devoti.
A metà della seconda settimana, il periodo convenuto quasi al termine, dei preparativi alla mia opera non resta traccia sul tavolo ormai cattedra, banco e sala giochi. La prossima settimana sarò tornato, era previsto di occuparla con la sistemazione del prodotto; che ne farò, adesso che un altro prodotto sta in altri quaderni? Il padre della bambina, dopo cena, viene da me con le mani occupate dal cappello che sempre porta, di fuori. "Le siamo grati... i bambini sono andati avanti... anche gli altri genitori... però hanno ancora tanto da fare... un'altra settimana, naturalmente gratis... quel che dobbiamo per l'incomodo...".
Telefono a Lucia, da un pezzo dovevo. "Hai finalmente incontrato Madama Ispirazione?". "Prenditi un giorno libero ché ti debbo raccontare". La prende in senso affermativo, per ora va bene così: abbiamo tanto parlato del mio libro, tanto ha partecipato alla sua prima gestazione. Conto sul suo umorismo, come finora del mio mi sono avvalso.
La terza settimana ci vede al capolinea; perfino, con la tara dovuta, il maggiore del gruppo. La partenza vede una folla a salutarmi. C'è il tempo perché qualcuno mi faccia vedere un ultimo compito, terminato la sera.

Per un intero anno sento il peso di una perdita. Non del romanzo, furiosamente recuperato all'esistenza in ogni momento favorevole, ma di una veste tanto estranea per la vita mia, cruciale per quelle altrui, da ottenere altrettanta seminagione nel mio spirito di quanta ne abbia sparsa fuori di me: pensavo di crescere un giardino e da quei fiori sono stato cresciuto. Nella bimba paffutella, dalla dignità dimessa tanto facile a trovarsi nella gente semplice, i capelli raccolti in trecce, dalla mamma promosse e da lei, appena cresciuta, mantenute con precisione, spalancavano un viso già grande, d'una serietà da bimbi serenamente seri. Aveva modi precisi da lavorante, nel suo giocare, la penna tenuta come un qualsiasi attrezzo, ma la mente vivace la faceva traino per emulazione dell'impegno altrui.

Così, per un bisogno reciproco, sono venuto ancora a dare lezioni, infine portando Lucia e quindi altre persone, perché ho bisogno di compagnia sempre nuova ad evitar di seppellire una novità nell'abitudine, di mutare la trasmissione di nozioni progressive in una progressione di fatiche viepiù sgradevoli. Ho accompagnato alle medie i maggiori, lasciandoli stupefatti sul baratro di un'assenza educativa nella forma di scuole troppo lontane dal loro paese e da quelli circonvicini, infine anche dell'esigenza di mantenere l'insegnamento in relazione al contesto, onde non ridurli a emigranti per eccesso d'istruzione anziché per bisogno. Che li ho incoraggiati a fare, portando a termine un obbligo amministrativo destinato a graduale diluizione nell'esperienza ordinaria, fino al punto di non sapervi ricondurre la generazione a venire, come la precedente con loro?

Stiamo prendendo in considerazione l'apertura di una scuola di agraria.

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