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Sul crinale

Siamo abituati a vedere le cose

nel modo in cui siamo abituati a vederle

Douglas Adams

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Franto fu colto da una strana sensazione, quel mattino. Ancor prima di svegliarsi aveva sognato, e nel dormiveglia aveva meditato, sembrandogli di dover trarre una conclusione, decidersi in qualche modo per alcunché capace di sbeffeggiarlo da dietro un ricordo. Come essere stato, per un momento, testimone d'un fatto decisivo per chissà quale faccenda, a lui estranea ma tutt'insieme compresa, e immediatamente aver subito la distrazione di una visione risaputa, una linea di pensiero banale: la novità, cercando a che attaccarsi, era stata condotta per un corridoio di abitudini e ora stava lì, non ritrovata perché l'occhio interiore, nella sua pigrizia, saltellava automaticamente a riconoscere i tratti noti del sogno. Come passeggiatore distratto, lungo la via di casa, sempre finisce col guardare i medesimi portoni, e le stesse finestre, e cartelli e pianticelle e muretti e prati; di più: del portone, sempre una certa crepa e della finestra, l'orlo d'una tenda e del cartello, un bordo ammaccato e della pianta, quasi solo la piega d'un ramo.

Scontento, Franto preparò la giornata compiendo, ma con meno piacere, le abituali manovre. Un senso di robe fuori posto lo infastidì più volte, inducendolo a riposizionare utensili, inutilmente raddrizzar lenzuolo, dare un calcetto alla sedia incolpevole. Uscì di casa ancora disorientato: la sua abitazione, in fondo semplice, gli era parsa troppo piena e ancor maggiore gli parve il caos d'intorno.

Avrebbe potuto, come in altri casi, cogliere positiva e rassicurante quell'abbondanza: c'era ricchezza intorno a lui, da godere nonostante le molte ostanti difficoltà; già l'aveva fatto, non per attingerne forza nella fatica ma per incrementare il piacere nel benessere.

Quel mattino, invece, essa pareva complottare per farsi importuna: una profusione di entità, tutte a reclamare attenzione quasi ne andasse della loro esistenza, si presentava ininterrottamente ai sensi, richiamandogli un tratto del sogno precedente ma egli non sapeva dir quale.

Franto ebbe l'impressione di essere finito in una grande voliera piena di uccelli chiacchieroni, il cui ciarlare risultava incomprensibile e inutile, una pura richiesta di attenzione senz'altro scopo. Allora d'un botto cadde in uno stato ipnotico e le confuse impressioni presero forma vera, il suo ambiente si popolò di esseri multicolori e improbabili, la sua mente ebbe uno sbandamento poi cominciò ad accompagnarlo lungo strade ignote ma ch'egli credeva di sapere: era un ravvisare tratti nuovi nel percorso; ogni oggetto rivederlo rifratto in molti specchi, capaci di rimandarsi l'un l'altro pezzi di significato.

Fu lo stesso sconcerto a infrangere la visione, a richiamarlo. Il troppo si ridusse al normale, riconobbe il posto e ritenne di avere avuto un semplice giramento di testa.

 

Il sole rischiarò tutto, in un attimo, dando a Franto lo spunto per un allargar di polmoni, un levare di testa, una ricognizione dei dintorni a cercare conferma, semplicemente, di avere cittadinanza colà, tastandone maggiore spazio.

Se prima, in un mancamento, la sua fantasia si era fatta garante dell'unità universale, dandogli un intreccio irrisolvibile in cui ogni parte richiamava le altre, l'impressione di lucidità, fattasi in quel modo presente, ricacciava ogni particella al proprio posto, gli esseri riconquistavano un nome che li delimitava e dava loro un ruolo ufficiale, tanto netto e materiale da non ammettere contaminazione: dal solo esserci era data ogni giustificazione e la creazione poteva anche essersi svolta due secondi prima: uno spumare d'onde senza un mare dietro, un rilievo senza terra sotto, alberi cresciuti senza radici ma anche case da nessuno costruite ed una storia ricordata e mai avvenuta; a nessuno ritenevano dovere motivazioni. Egli stesso si sentì ingiustificato: in quel posto, in quella direzione, in quell'universo... insomma, tutto gli parve reso ammissibile.

Stette così, Franto, senza forze; solo seppe contemplare le sue percezioni. Era, ogni ipotesi, divenuta plausibile: considerò ogni sembianza, le costruzioni e gli spazi fra esse, e i rumori e ciò che li provocava; tutto poteva, come niente, essere trasformato in altro da un moto della volontà. Poteva, si domandò, modificare un solo piccolo particolare e in questa maniera rivoluzionare il pianeta? Se questo che vedeva non trovava altro sostegno, sarebbe stato facilissimo...

 

Qualcuno cominciava a guardarlo, mentre si muoveva lentamente nella solita direzione. Egli stesso si trovava strano e tanto più stupito dai suoi pensieri, sorprendenti per essere sgorgati dal nulla, senza alcuna preparazione da esperienze o discorsi uditi o fatti occorsigli, dunque maggiormente autorevoli.

In un moto di timidezza allungò il passo cercando di dargli sicurezza, a dire che tutto andava bene, per il verso giusto. Proprio quel passo rese il senso delle cose ancora più terso; nel modo in cui quel movimento dava un aspetto di decisione al suo esserci ed agire, così nella sua mente le percezioni assunsero il tono inequivocabile di affermazioni categoriche. Gli oggetti scorrevano verso il suo sguardo con disinvoltura poi, compiuta la presentazione, si accomiatavano senza cerimonie. Proprio perciò, però, parve a Franto che fossero furbizie di falsario, millantate magnificenze mirate a mascherar mancanze: le cose, la loro affermazione al proprio interno, erano voci propagandistiche d'un'esistenza priva d'altri contorni: una pura dichiarazione d'autonomia. Tornò pertanto a Franto quel sentimento di opinabilità della stessa fonte presunta d'ogni determinazione di realtà: la materialità, il dato nudo e, ma più non sembrava, incontrovertibile su cui qualsiasi dimostrazione poteva fondarsi.

Quel dubbio di arbitrio si fece sicurezza: nulla recava giustificazione! Era davvero possibile, allora, spostare una parte qualsiasi: come si sposta una tazza sul tavolo; come ci si aggiusta l'abito.

L'idea lo colse colla potenza di una rivelazione: mettere le cose a posto, raddrizzare quanto si doveva! Frenetico lanciò sguardi alla ricerca della piega malfatta, del filo smagliato, dello strappo impercettibile che denunciasse il punto da cui partire.

Si distaccò in tal modo da quanto vedeva; egli era un giudice e tutto era offerto alla sua valutazione: la posizione d'un cespuglio, il movimento d'un umano più avanti, il colore del cielo, la tettonica planetaria, le leggi della fisica, perfino il suo nome, che in un universo appena modificato avrebbe assunto un suono nuovo.

Sedette egli dunque, dove gli capitò; riprese fiato accorgendosi d'una lunga apnea. Raccolse le forze e la concentrazione preparandosi alla grande impresa: molto avrebb'egli voluto cambiare e cominciò. Un percorso troppo sconnesso spianò per la sua sola volontà; una malattia fu guarita; un prepotente allontanato dall'esistenza. Un ammasso di rifiuti si trasformò in una collinetta fiorita; intieri eserciti in arme furono spazzati via e boschetti sorsero al loro posto.

Quasi sgorgasse da un serbatoio, a lungo trattenuta, la fantasia scatenò una caterva incontenibile di novità: sorse un monte altissimo, con orridi e guglie e alberi contorti e fauna misteriosa nascosta in tane di grande profondità; un mare burrascoso eruppe di mezzo ad una valle, spruzzando vergini coste frastagliate di bianche scogliere, mentre sulle sue acque incrociavano antiche navi e di sotto balene e leviatani che s'inabissarono per condurlo alla scoperta di esseri dalle forme raccapriccianti. Si trovò contemporaneamente lanciato ad altitudini estreme per soffiare via le nuvole da un posto e radunarle altrove, coll'intenzione di trasformare deserti; salì tanto da perder di vista il suolo, cercandolo deviò comete, poi attirò galassie e dissolse nubi immense.

La strada spianata fu strappata da un terremoto e un corpo sviluppò mali nuovi mentre col prepotente s'apriva una voragine di nulla; le rocce franarono su natura e umani, bestie mai viste aggredirono, le acque travolsero e il leviatano fu divorato da ignote specie di pesci poi riversati al suolo; i cieli precipitarono.

 

Franto ebbe un sussulto e il mondo si ripresentò come prima, solo più conscio della propria fragilità. Un vento leggero richiamò la sua attenzione, spostando due fili d'erba a portata di sguardo. Sentendo come un accenno di febbre, cercò di figurarsi uno spazio lì in mezzo, su cui esercitare un minimo intervento. Piccole cose, si disse, proviamo colle piccole cose. Tra quei due steli trovò una specie di passaggio; era il punto d'appoggio per una leva piccolissima che Franto mosse cautamente. Non l'avesse mai fatto! Non solo la sua terra fu sbucciata, ma ogni tegumento asportato a rivelare il complesso d'inerenze interiori d'ogni cosa, e che ne vide, di sé e della terra? Assolutamente nulla, tanto complesso e sfuggente il reticolo di relazioni che dava consistenze da non saperlo ricondurre a singoli enti, tutto confluito nell'unità, dotato di vita propria, adesso non bisognoso di manifestarsi in piante, animali o umani; si ritrovò ad essere un niente e, temendo la propria dissoluzione, subito si trasse indietro affinché ogni cosa fosse nuovamente rivestita, prima che tutto quell'indistinto fondesse e la creazione dovesse riprendersi dall'inizio.

 

Asmatico, stette mentalmente sul ciglio dell'abisso appena intravisto, rabbrividendo al ricordo di un'esperienza che, appena passata, sembrava già tanto remota perché remota era l'esistenza, così mondata d'apparenze da non poterla comprendere. Si rese conto d'avere un ben limitato raggio d'azione: solo strisciare sullo strato superficiale di solidi non oltre indagabili, ma a tanto si riferiva l'intera esperienza umana, colle sue peculiarità e la storia e le mutazioni; a tanto poteva ben dare un cambiamento, ma in quale direzione? Era stato colto nel mezzo della vita ordinaria e le non colte sfaccettature, le impercette variazioni, le irrilevate eccezioni sembravano incapaci di dare cambiamenti significativi, non dicesi all'esistenza, ma almeno alla sua giornata. Nel considerarle, Franto riconobbe legami prima non afferrati che gli sembravano intrappolare gli oggetti, ma quindi anche gli eventi, in una rete troppo definita, preconcetta, un insieme in cui la fantasia era bandita e la necessità governava. Vide confinata la vibrazione d'ogni molecola e congelarsi nei limiti imposti, vide una storia poco elastica riprendere la forma precostituita a fronte d'ogni scossone. Se un rivolgimento indiscriminato aveva potuto generare caos, l'alternativa non appariva incoraggiante; come obbedendo all'imperativo d'un meccanismo ineluttabile, riprese il cammino, rivide il paesaggio noto, apprestandosi alla svolta consueta nel tragitto.

 

Ebbe però la percezione d'un mutamento, di variazioni del panorama capaci di renderlo un luogo diverso, ma ch'egli nondimeno riconosceva. Sentiva ogni fatto avere una risonanza in lui, o forse entrambi, lui e il panorama, cambiavano concordemente. Era questo il mutamento: una nuova, o forse ritrovata, sintonia con l'universo, talché i moti suoi fossero rispecchiati da parallelo esterno. Sorse così l'ovvia questione se un moto generasse l'altro, e quale, o la sua fosse unicamente la consapevolezza dei fatti, o fossero i fatti consapevoli di lui. Provò pertanto a dialogare con la novità, trovare il proprio equivalente del cespuglio alla sua destra, del soffio di vento leggero. Gli sembrò trovarli e provò con qualcosa di complesso: una persona in movimento, per esempio, le cui intenzioni non dovevano dipendere da Franto. Visse allora con estrema sorpresa il fatto che, proprio mentr'egli si trovava a pensare un possibile spostamento, quella persona facesse un saltello a superare qualcosa e poi svoltasse. L'emozione lo riportò brutalmente, forse per paura, allo stato di tutta una vita; stato affine all'autismo, lo considerò: percepiva ora il distacco, come se il suo sguardo mentale non sapesse più aprirsi intorno a sé, il suo spirito fosse prigioniero e soltanto sapesse rimuginare i propri moti. Febbrilmente ricercò l'aggancio ma non all'abisso indifferenziato, o forse solo indifferente, in cui l'esistenza priva di buccia s'era trasformata, bensì alla collettività di fatti e di azioni, di masse e di forze che brevemente aveva sentito affine, quasi fino all'identità. Di nuovo provò una vertigine che lo tentò a ritrarsi ma resistette: se l'immensità spaventava, lo dissuase l'idea di rientrare in un sé angusto, senza finestre: tale giudicava, in quel momento, la possibilità di perdere il contatto.

 

Si affidò, lasciandosi percepire senza giudizio, sospeso in un bulbo di morbida attesa del collegamento appena stabilito. Non ritrovò l'immediata relazione che gli era risonata dentro, cercò di guardare in giro se mai di quanto vedeva ravvisasse il corrispondente, ma senza effetto. Deluso, chiuse per un momento gli occhi e l'isolamento svanì: ritrovò un repertorio prima ignoto di fatti e relazioni tra fatti, ricordi e reazioni ad essi, impulsi provenienti d'ogni dove e la conoscenza del loro scopo, al punto da sperimentare la stessa apnea di quando l'universo gli s'era mostrato, disadorno, in una verità ingestibile: simile stato scopriva in sé stesso, un'entità senz'apparenze ma una vitalità che si bastava. Sentì maggiore il pericolo all'idea di sprofondare, o essere risucchiato, in una vastità priva di appigli: gli parve che ogni ragionamento fosse un semplice gioco a rimescolare etichette colle quali sostituiva la realtà, sempre situata altrove.

Era dunque anch'egli insondabile? Fu ricacciato, ancora da paura o da incompatibilità, a considerare apparenze le cose, che fino al mattino avrebbe definito concrete, quasi boe a segnalare posizioni per non perdere l'orientamento mentre il mare si estendeva, inesplorato, all'interno. Erano oceani in cui relazioni si esplicavano secondo leggi di natura di là da scoprire.

Fu colto da una forma di quieta sorpresa mentre scopriva associazioni fra idee, o loro insiemi, altrimenti estranee: un volto si legava a una vela lontana, intravista da bambino; una posizione comoda prendeva nome di un monte; il gesto di un passante del giorno prima suscitava ragionamenti sull'ordine delle stelle. I sogni prendevano significato e i simboli consistenza.

 

Gli occhi riaprì, dopo quello che gli era sembrato un eone e molti averne contemplati, rendendosi conto che era stato tutto un battito di ciglia: anche il tempo, pensò, serviva solo da marcatore per il gioco di segni fin allora creduto vita. Si mosse per un automatismo, la normale reazione d'un corpo al suo ambiente. Ritrovò senza difficoltà il suo posto, la sua strada, i gesti prevedibili, ma rilevando una differenza inesprimibile purtuttavia convincente capace di dare sensi nuovi anche a quei simulacri definiti piante, case, bestie, persone; aria, cielo, terra, calore; vicino, pesante, collettaneo, fortuito...

Sapendone l'interno meccanismo, Franto ritenne di potervi agire una parte decisiva; fece un rapido accertamento di sé nel mondo, quasi richiamandosi la relazione diretta prima sentita e così convincendosi a continuare col cammino consueto, senza temere fagocitazioni. Ma che fare di quel cammino? La sua parte nella generale rappresentazione gli si faceva stretta, gli scopi irrilevanti. Tutto poteva essere; tutto ugualmente insignificante, ugualmente possibile, qualsiasi alternativa ammessa.

 

 

Pensò dunque, Franto, di immaginare quale minima variazione potesse introdurlo in una nuova serie di entità, nuovi mondi e nuovi incontri: il gesto che stava per compiere, in simultanea col passaggio di un carro; guardare il modo in cui la luce colpiva una piega del fogliame; concedere attenzione al richiamo d'un uccello. Erano ciascuno l'evento minimo capace di produrre un'onda di effetti anche a distanza e conoscerli in anticipo sarebbe stato l'equivalente di una bacchetta magica o una pietra filosofale. Si disse che forse a tanto si riferivano miti e leggende, misteri e sapienze, e saperne di più gli avrebbe permesso, l'occasione ora giunta, di scegliere per il miglior mondo possibile. Era una conseguenza della relazione fra i nuclei inesprimibili e l'apparenza che li ricopriva.

 

Rimase però nel percorso di quel giorno come nulla fosse, perché non seppe che variante dare alla sua vita. Esausto, francamente, per il viaggio compiuto; infastidito dall'eccesso di nozioni non richieste che s'interponevano fra lui e l'umana meta prevista fin dal risveglio del mattino; mancando dell'ovvio e scarno meccanismo di causa ed effetto sostituito dall'attenzione a contesti, globalità, strutture in evoluzione; perduta, infine, la via semplice al cambiamento; gli sembrò, in definitiva, che ogni passo fosse quello giusto, indiscutibile ogni gesto ed ogni sguardo, né fosse necessaria la pur minima divagazione.

Pensò, con lieve disappunto, che gli sarebbe piaciuto cambiare la ragione di nostalgia, conosciuta in suo padre, in un motivo di gioia; o sollevare il peso, colto in una donna ormai lontana, affinché lei fosse innalzata. Trasmettere infine, agli umani, l'estatica percezione della realtà di un particolare qualsiasi, il momento di anni prima in cui gli era parsa disvelarsi l'evidenza delle cose.

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Capì che gli mancasse, ed era un piano. Affrancati dal bisogno, gli atti comuni rivelavano già un seme d'autorevolezza e la teleologia del quotidiano assumeva spavalderia giammai sospettata; cos'altro aggiungere, a dargli maggiore risalto? Fu egli colpito dalla scoperta. Franco, a viso aperto e sereno: così si volle a disegnare passi altrimenti pensati ordinari.

Si trattava allora di sapere, nell'ordinario, se una scelta aprisse un bivio, e quale; se fosse meglio quel gesto o l'altro, se toccare quel punto o un altro di fianco, se il suo passo dovesse avvenire in concomitanza con quello di un passante, o prima o dopo, anche muovere improvvisamente un oggetto tenuto in mano... e ogni volta sentire d'aver compiuto ciò ch'era inevitabile.

In un tragitto di piccole scelte, consapevole come non mai di un funzionamento interno preordinato a produrre gesti e pensieri, e per loro tramite generare un'onda estesa agli estremi confini dell'oceano universale, percorse una strada conosciuta coll'abitudine dei passi d'ogni giorno. Senza varianti e sforzandosi di sopportarlo.

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