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Quella là

Don Tinì era un uomo stimato. L'intera cittadina lo conosceva e i personaggi più in vista erano clienti suoi. Aveva lo studio in un antico palazzo nobiliare sulla piazza principale, proprio di fronte al Comune e poco lontano dalla chiesa. Era centro e destinazione, non solo degli affari, ma anche della cronaca locale, delle voci, dei pettegolezzi, in questo avendo la sola concorrenza dell'osteria, distante dalla piazza pochi metri, e del negozio di barbiere, altrettanto vicino ma dall'altro lato. Insomma, don Tinì e il suo studio erano uno dei centri d'attrazione del paese e ovunque andassero, lui e la signora, non c'era persona che non li salutasse cerimonioso, dal sindaco al parroco a don Tano, un altro dei pochi a poter vantare, laggiù, pari influenza.
Egli, dal canto suo, sempre rispondeva a tutti con rispetto e cortesia, fosse pure al garzone del panettiere, un ragazzino che aveva abbandonato la scuola per le pagnotte, a causa della disoccupazione in famiglia.
Passando davanti al circolo sociale, rispondeva col solito garbo agli sfaccendati seduti ai tavoli di fuori, incurante delle occhiatacce che accompagnavano i saluti dei più radicali, quasi dovute perché nemico di classe. Don Tinì aveva spiegato alla moglie:
"Li vedi, questi cafoni? Fra loro ci sono alcuni con del cervello e del fegato, e uno di loro potrebbe, domani, diventare il mio cliente migliore. Bisogna che si ricordi della mia gentilezza, perché non gli venga l'idea di rivolgersi a qualche studio in città. Un professionista come me non è importante per quello che fa, ma per come fa sentire importanti i suoi clienti."
Così era don Tinì: educato e attaccato al lavoro. Sua moglie, Maria, era fiera del marito per la posizione datale in società. Lei rappresentava il giusto complemento femminile di tanta condizione, e partecipava della poca vita pubblica con la classe e la modestia che ci si attendeva da lei, contemporaneamente crescendo senza pecca i figli che ne avevano benedetto l'unione.
Questo fino a tre mesi prima, e poi la sciagura s'era abbattuta sulla famiglia.
C'era stata quella maledetta mostra di quadri e la coppia aveva ricevuto un invito da un qualche corrispondente del marito in città. Erano andati più che altro per onorare il mittente.
Don Tinì, come aveva visto quella là, se ne era rimasto imbambolato per un attimo, poi aveva sfoderato impreviste competenze artistiche per discettare di toni, luci e proporzioni come fosse stato il cicerone, visibilmente compiaciuto. La moglie aveva lasciato fare, com'è ovvio, ritenendo si trattasse di un'altra delle strategie da adottare nei confronti di possibili clienti, ma non le sfuggirono le occhiate, trattenute a stento, verso la donna, che se ne stava offerta al pubblico sguardo in una posa indecente che lei non si era sognata neppure nell'intimità domestica.
Che l'incontro con tale bellezza l'avesse segnato, al ritorno fu chiaro dall'aria svagata del marito, che dimenticò anche di fare i piccoli commenti abituali durante i viaggi.
Per alcuni giorni l'episodio sembrò superato, poi accadde qualcosa. Erano in soggiorno, alla controra, in una giornata ancora libera dal caldo soffocante ormai prossimo, data la stagione. Suo marito leggeva una rivista, quando disse: "Ah!", sottovoce, come le volte in cui trovava qualcosa di interessante, o utile per la sua professione.
Lei domandò: "Notizie buone, Tinì?". Al che egli ebbe una reazione curiosa: chiuse il giornale di scatto, la guardò sorpreso come se lei fosse entrata solo in quel momento, e farfugliò brevemente prima di rispondere.
"Mi sono ricordato che devo finire una pratica per l'avvocato Calisi. Bisognerà che oggi scenda allo studio un poco prima." E aggiunse, esitando: "Non ti dispiace, vero Maria?"
Ecco. Al di là dello strano comportamento, fu questo il segnale preoccupante: non la chiamava mai Maria, se non quando era imbarazzato. Cosa che lui non sapeva di sé, ma di quelle che non sfuggono ad una moglie.
Da quel giorno, suo marito cambiò. Erano di quei cambiamenti da non poter descrivere, fatti di sguardi persi nel vuoto, sorrisi fra sé privi di ragione, inspiegabili reticenze. Il giorno poi, in cui le amiche la accolsero con un cordiale quanto velenoso: "Ma che mai gli avranno portato, al tuo Tinì, quelli dalla città?", ella capì: non solo suo marito non aveva mai smesso di pensare a quella, ma con il suo comportamento si era fatto capire da qualcuno e a quel punto, probabilmente, lo sapeva il paese intero.
Così, ne fu certa: la vedeva ancora, quella là! Di sicuro, l'aveva fatta arrivare dalla città e ne godeva segretamente in ufficio. Ma lei non avrebbe permesso che una bramosia disordinata travolgesse la loro vita, per non parlare della fortuna professionale del marito: nessuno avrebbe dato più credito a un uomo che si lasciava condizionare da una turpitudine mascherata da passione artistica.
Pazientò a lungo, ché si sa come vanno certe cose, e poteva essere uno sbandamento momentaneo: molti uomini, ancorché onestissimi, possono perdersi e riaversi, e donna Maria riteneva che la virtù di una donna può consistere anche nella fedeltà e nella sopportazione.
Ma il tempo scorreva, i segnali inquietanti non cessavano; avevano anzi raggiunto una specie di regolarità, come se lo scabroso desiderio si fosse placidamente inserito in un tranquillo vivere fatto di casa e lavoro, e suo marito non vedesse la stridente incongruenza.
Aveva una sola cosa da fare: un giorno in cui riuscì a prendere coraggio, si abbigliò al meglio, poiché certe cose si fanno con dignità; prese la pistola ereditata da suo padre, ne controllò l'efficienza e la caricò, come egli le aveva insegnato; infine si diresse senza esitazione allo studio del marito.
Chi la vide intuì subito il culmine di una vicenda durata fin troppo, e chi poté si fece dappresso tentando vanamente di non darlo a notare, ma quasi tutto il paese era infine radunato sotto le finestre dell'ufficio di don Tinì quando sua moglie Maria, senza degnare di uno sguardo la segretaria e un paio di clienti dappoco, superò l'ingresso ed entrò senza farsi annunciare.
Quella era lì, come ormai sapeva! Senza la minima esitazione sparò.
Dalla strada udirono tre colpi in rapida successione e una fiumana si lanciò su per le scale, senza più freno; il bisogno di accorrere in soccorso dava a tutti la possibilità di trovarsi in prima fila allo spettacolo dell'anno: avevano sparato nell'ufficio di don Tinì!
Agli occhi attoniti di chi riuscì a primeggiare sulla calca, si presentò una scena da rabbrividire: don Tinì era semichinato, gli occhi fuori dalle orbite per lo spavento e lo stupore; donna Maria era in piedi in mezzo allo studio, la pistola fumante in mano, lo sguardo fiero di chi aveva compiuto il suo dovere.
A terra, sotto il luogo in cui fino a pochi istanti prima era oscenamente esposta, i resti di una riproduzione della Maja Desnuda, ordinata da una ditta della città.
Dopo un fatto simile, donna Maria si conquistò il rispetto e la gratitudine di tutte le maritate del paese. Con il suo gesto aveva dimostrato, ai rispettivi consorti, che non si poteva tradire una donna con la scusa dell'arte!

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La Maja Desnuda è un famoso quadro di Francisco Goya (1746-1828), e ritrae una prostituta del tempo, discinta e in posa provocante (almeno secondo donna Maria!).

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