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Quartetto d'archi fra macerie

Avrei preferito morire allora, apoteosi del sogno; avendo creduto nella bellezza, ad essa porgere gli ultimi fiati, prima dell'ultimo sospiro.

Trovato così, in una poltrona dell'auditorium, gli spettatori sfollati, un leggero sorriso a commentar l'esecuzione.

Avrei certo creato problemi agli organizzatori: "Come, fate entrare gente simile?"

E l'usciere a scusarsi, senza saper dare conto di quello sguardo ancora vivace, di quella proprietà di linguaggio, mediante i quali si era fatto convincere a lasciarmi entrare: un barbone, i capelli luridi, male in arnese e lacero.

Avrebbero fatto esami, come a sospettare che un simile rimasuglio d'uomo potesse morire d'altro che di stenti: troppo debole il cuore per quell'eccesso d'arte a cui, sicuramente, non era abituato.

Perché da morto non avrei potuto difendermi dal certo sospetto di ignoranza, di rozzezza, smentito all'usciere con un breve discorso.

"Buon giorno." avevo detto "Mi rendo conto di avere un aspetto orrendo. Le chiedo scusa. Ma ormai per sentire della musica di pregio non posso che approfittare di questi concerti gratuiti."

Forse già il  solo sentirmi parlare italiano, senza accenti da inferiore etnia o fresco stravizio, deve avere spiazzato il brav'uomo. Come aver con la voce rivelato un'identità per bene sotto mentite spoglie, mettendolo a parte del segreto.

Così vanno le cose, e anche fra poveri ci si trova a precisare graduatorie, a volte per ammansire i benpensanti, a volte insulto di riserva a qualche compagno di sventura. Avevo aggiunto:

"Le sarei grato se non volesse dar caso all'aspetto. Ci terrei parecchio, sa, ad assistere."

Una mossa lieve, dando il 'sì' per scontato, ed ero dentro; i sensi della mansuetudine all'addetto che offriva i programmi e nel buio, finalmente, non rendere conto che alla Musa.

Dopo il mio ritrovamento, avrebbe avuto un bel daffare, il personale, ad evocare l'apparenza ancora favorevole benché miserrima. Ma io, nel frattempo, avrei sentito che lì si compiva la mia china, rivelantesi al contrario per un'ascesa, spogliato d'ogni benessere ma ritrovando l'arte; un crescendo finale avrebbe accompagnato i miei finali palpiti, e mi sarei sentito il Paradiso in tasca, complice una sceneggiatura forse non originale.

Mi toccò invece di applaudire anche il bis, di rifare gli occhi all'impietosa luce rivelante al pubblico sconcerto la compagnia fin allora insospettata. Ché, a sapere di una simile presenza, il programma sarebbe apparso assai meno raffinato.

Ma che importa: era gratis, dopotutto.

Così uscii, tenendomi alla larga, non essendo di quelli che trasformano le piaghe in vanto.

Del concerto, che dire? Non conoscevo le musiche, e l'attenzione andava da esse a un libro recente su questioni filosofiche, di un autore che m'era parso sazio di pane e determinismo, e offriva spazi al libero arbitrio. E con lunghe sequenze, non tutte corrette a mio parere, era quasi riuscito a convincermi sulla sua visione del mondo e del destino.

Andavo pertanto ad esplorare le figurazioni di un universo musicale incognito, troppo complicato per dire cosa sarebbe accaduto l'istante successivo, le regole compositive note insufficienti. Fra un'imprevista variazione del quartetto e la successiva, mi sentivo alternativamente il prodotto di un caso burlone, o pianticella amorevolmente curata dal destino.

Da quando avevo perso l'ultimo lavoro, per me, la strada era solo discesa. Altri ne avevo conosciuto, che si aggrappavano alle residue formalità di una vita normale, ed erano più bravi di me nel mantenersi in ordine, cercando le occasioni, il posto dove si spendeva meno, quello dove ti regalavano qualcosa.

Io non ero stato buono di mantenermi un tetto; vagavo da tempo per la città astiosa in cerca di un buco per la notte e di un pasto per il giorno; m'ero fatto parco, più che già non fossi, e m'ero ingegnato anch'io di conservare, del prima, certi dettagli. Ma eran dettagli diversi: non m'era mancato mai un buon libro, e la musica non difettava. Certo, c'erano stagioni migliori d'altre: col sole tutto sembrava abbondante, e la gente desiderosa d'offrire tesori; l'inverno m'aveva provato, e poca lettura s'era sommata a scarso cibo; troppo freddo aveva supplito i brividi all'emozione.

Me ne venivo così, all'uscita dal gelo, maggiormente voglioso di ripristinarmi l'aura di intellettuale disarmato.

Ero arrivato a poco a poco in quella situazione. Già quando un lavoro c'era, magri guadagni di scarna congiuntura, avevo sceso qualche gradino verso il limbo dei poveri; perso amicizie, passatempi, aspetto benestante.

A ben pensarci, non mi sembrava d'avere intrapreso un percorso estraneo alla mia indole, ché la perplessità già mi accompagnava, quando non c'erano problemi, e m'era venuto di buttar via tutto di me varie volte, per esempio leggendo da qualche parte che la memoria è contenuta nell'attimo, tutto l'Io appiattito nel presente e, al successivo istante di Planck, altra funzione d'onda avrebbe preso il mio posto, un cosmo equivalente in parte ma estraneo, la sua Memoria somigliante al mio perduto Adesso.

All'uscita dall'auditorium, pertanto, ero ancora avvolto dall'impressione di quei quattro signori che interpretavano musica di nicchia di cui cinque minuti prima non sapevo nulla. Ormai una Quinta di Beethoven, gratis, te la dà soltanto qualche orchestra di giovani studenti, e i professionisti prendono il largo fra sonorità d'altri scopi.

Mi sentivo un laghetto, mosso unicamente dai movimenti interni, in cui fosse caduto un fuscello, e le onde increspassero di novità l'ambiente quieto che non se l'attendeva.

Così mi domandai se il Padreterno non fosse anch'egli come un intruso, a gettar nella creazione un fuscello talora, le cui onde potessero riempirla di cose nuove sufficienti a illuminarla. Poi queste onde avevano dato, a noi mortali, animo per la musica, e per domandar che siamo.

Il pasto fu scarso alla mensa dei poveri, troppi questi per il pentolone.

Mangiavo il pane e pensavo ai membri del quartetto. Venivano da un posto di guerra recente. Mi domandai se nel frattempo fossero vissuti all'estero, o avessero esercitato fra i resti d'un bombardamento; e dove avessero composto quelle musiche gli autori della stessa nazione: se in un accogliente quartiere di Parigi o fra le guardie di una caserma. Tempi più faticosi del mio, riflettei: che avrei fatto in quel caso? E certo anche questi non scherzano, a far dei cittadini una marmaglia di poveri.

Mi domandai anche perché, con tanto ingegno, avessero avuto bisogno d'una guerra per la ridefinizione di confini, tutti convinti che le loro carte vantassero antenati migliori delle altrui.

Siccome avevo ancora fame, mi attardai fra i banchetti di una fiera alternativa. C'erano genti d'ogni età accomunate dal vendere e dall'abbigliamento, dimesso quanto il mio ma non lercio. Lì mi pareva di meno sfigurare. Siccome c'era cibo in quantità, riuscii a rimediare qualcosa ma credo di averli infastiditi perché, dopo mangiato, rimasi a guardare, non solo il cibo ma anche le piante, e i prodotti esotici, e certamente i libri, ché fra quei tavoli ne trovai parecchi, e fortunatamente non tutti conditi d'ideologia. Mi piacque anzi la varietà, perché c'era da scegliere a fatica.

Mi venne, insomma, uno di quei momenti d'entusiasmo in cui mi sembrava trovare, sotto il velame dell'apparenza, un ché di sensato nell'eccesso di fatti. Commisi perciò l'errore di bere ancora vino all'ultima bancarella. Fui dunque incauto e avido, e quando vidi un pezzo di panino finito per terra, il formaggio esposto al sole, feci un gesto elegante e come niente me lo misi in tasca, non si sa mai.

Allegro, perché era una bella giornata sotto ogni aspetto, pensavo ai libri e a certo intellettuale secondo cui avevano quelli vita propria, capaci di significare più che non sia scritto. E non perché ogni lettore ci metta del suo: sarebbe anzi fraintendimento, non bastante una privata analogia. Invece, in uno scritto le parole non evaporano ma si stratificano e ogni generazione di lettori le ridispone a rappresentare punti di vista nuovi, senza perdere i vecchi di cui c'è memoria.

Cercai di attaccare bottone col libraio, col venditore di formaggi, coll'artigiano. Mi sembrava un'occasione per liberarmi della mia vagabondaggine, se mai avessi trovato lavoro in una di quelle botteghe e fattorie condotte come famiglie allargate, senza sopra né sotto.

Purtroppo, il mio parlare era disciolto fra il vario passare e guardare e comprare, e infine in un fastidioso mugugnìo quasi cantato di chissà quale provenienza, intendo dire geografica, poiché fisicamente proveniva invece dagli altoparlanti sistemati presso un venditore di collane.

Mi parve un piccolo mondo tranquillo, ancora sul nascere, poca sostanza ma promesse allettanti e alcuni buoni risultati. Somigliava ai mercati come dovevano essere dopo le guerre, con più creatività che vettovaglie, e la fiducia nel futuro a condir tutto: sembiante in Europa degli attuali mercati del Sud.

All'improvviso mi sembrò d'esser passato al movimento successivo d'una composizione, e dopo un brioso avvio c'è un ripensamento, dolente in qualche opera, in altre celestiale a seconda dell'autore, di chi suona, o dell'umore del pubblico.

In me fu scontentezza e m'allontanai, nel sole che declinava, con un torbido d'inquietudine. Senza la mia volubilità, gli stati d'animo a susseguirsi disordinatamente, avrei avuto sorte migliore? Ma qual sorte non immaginavo, e se l'avessi immaginata l'avrei forse vissuta, pure.

Mi ritornò in mente il determinista e mi sentii vittima di me stesso, di ciò scontento, non sapendo con chi o cosa prendermela, e se ne valesse la pena. Avevo da tempo deciso che uno scorbutico silenzio meglio potesse di imprecazioni impotenti: magari era premiato l'orgoglio. Ma come si potesse premiare il ghiribizzo d'altro in me, non sapevo.

Eppure mi piaceva il pensiero di una divinità intrusa, che ci voglia bene abbastanza da metter del suo nel meccanismo universale, onde farlo migliore. Come quel giardiniere che non costringa violette a farsi rose.

Io, di me, cercai di coltivare la raffinatezza, senza riuscirci. Non che mi scarseggiassero la parola e i modi, ma forse mi sarebbe occorso un sano senso pratico, viste le risultanze.

La sera mi colse nelle zone solite, perché fa molto il sapere come si porta la città in certi luoghi, e dove puoi con maggiore probabilità scampare ai teppisti, ai bravi cittadini facili ad arrabbiarsi, a chi potrebbe scambiarti per un sacco da allenamento.

Ero ancora dell'umore burbero, rivendicando fra me le ragioni e i torti.

La mia precarietà sembrava accusarmi e mi sarei scusato, con i passanti lontani e financo le strade, le case e i loro contenuti. Dir la presente situazione superabile con uno di quei rovesciamenti improvvisi, da far la felicità nei matematici che si occupano di catastrofi. Le quali s'erano invece attardate, lasciandomi vittima di un lento scivolare.

Ma che v'importa del mio essere lì? Fa una qualche differenza sapere che no, non ero un disadattato, o affetto da tare leggere ma decisive; un borderline che ha passato il confine. O un anarchico, nel senso deteriore? Ecco che rinuncio ad un ultimo scudo; perché a me invece importava, e trascinavo la mia miseria con la dignità che altri non si sono mai conosciuti mentre io, alla dignità, credevo. Non avevo incurvato le spalle; il mio tono di voce si era mantenuto sobrio ed educato.

In questo fango, come veder differenza? Io che l'avevo gelosamente conservata, vantandomi un tempo di non avere rubato che libri, finché un panino mi fu troppo necessario.

A guardarmi, era fenomenologia chiara, e non si sospende alcun giudizio: serve acqua, serve sapone, e tante cose bensì avute, ma troppo costose a mantenersi. Campo d'operazioni definito, e i miei deliri buoni solo in seconda battuta. Prima si tratta di ricostruire, poi di sentire se alcunché sia rimasto fra le rovine.

M'ero sistemato piuttosto bene quando mi ricordai del panino raccolto; una mano in tasca e ne sortì l'ammasso, di pane appiccicato al formaggio disciolto. Lo consumai furioso e la soddisfazione accompagnò il sopore.

Passò del tempo, forse. Ma se lo iato nella coscienza è reale, in esso sprofondano i filosofi della soggettività. Altrimenti fu un attimo, fra l'ultimo ingollare ed il risveglio, e subito la bocca si riempì di acido e la pancia di dolore.

Un lamento m'uscì, rabbioso, e le contrazioni fecero memoria di parti di me a lungo neglette.

Ancora incosciente, pensavo al quartetto e davo a loro la colpa del malessere; poi mi ripresi, vidi la notte incombente e compresi il problema. Stavo male, stavo terribilmente male e così, alla sprovvista, non seppi come reagire. Mi sporsi alla notte gettando in essa la paura.

M'aveva accompagnato spesso, madonna Paura, e sempre l'avevo ricacciata col ricorso a madonne migliori, ma quella volta l'oscurità premeva e potevo solo piangere.

Malumori d'intorno mi ricordarono di non essere l'unico, laggiù, scomodamente piazzato, e la buona educazione d'infanzia prevalse: "Non disturbare, fa' il bravo". Con qualche anno in meno, nessuna creanza acquisita, altri si sarebbe messo a bestemmiare come oggi usa.

Io invece mi feci piccino senza riuscire a trattenermi, pianti gemiti dolore e diarrea. Si riversò fuori di me tutto il possibile senza che il male calasse, mi ritrovai puzzolente e bagnato continuando a pregare che finisse, che mi si risparmiasse un tale capolinea.

Perché ben l'avevo capito dove portasse quel dolore, e sentirmi strappare le viscere non fu, credetemi, orribile come sentir che l'anima mi si strappava via.

Allora pensai non fosse quello il modo, il tempo. Come annullasse tutto il bello che c'era, annullando me.

Volli richiamare qualcosa, e non seppi che cantare. Fu gemito, ma sulle musiche note. Proteste d'intorno e sprofondai nella vergogna, nel vomito, nella perdita d'ogni rimanente difesa.

Io, questo corpo insudiciato e stanco, i miei ricordi stracciati l'unica ribellione al perdersi, gettai ogni parvenza bonaria, ruggendo di rabbia e povertà. Ma la bocca infradiciata non mi resse, il fiato mancò, non mi restò che sussultare.

Degli ultimi istanti, o delle ultime ore, nulla so dire. La medesima inconsapevolezza del sonno mi colse, stordito e impotente.

Solo al mattino mi rinvennero, la faccia affondata negli ultimi inutili pasti, foglie e giornali venuti a farmi compagnia, complice il vento.

Monumento di me, a perduta memoria.

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