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Lo spaventapasseri

C'era un contadino che aveva un grosso campo, in una pianura un po' mossa ch'egli coltivava a grano talvolta, a trifoglio talaltra. Alcuni anni lo lasciava egli a far maggese perché producesse a piacimento ogni sorta d'erbacce che lo concimassero per le future semine.
Ogni anno, per qualunque coltura, metteva uno spaventapasseri in luogo strategico ben visibile da ogni punto; l'addobbava egli d'abbigliamento largo e svolazzante, buono a fare movimento ad ogni brezza, roba raccattata e magari neppure vestiario che però facesse la sua figura sul pupazzo, rimpolpato di fieno e stracci per avere forme credibili fin da presso. Ci metteva sempre un qualche pezzo metallico a fare rumore, aumentando l'impressione generale.
Quand'eran le erbe cresciute, e il vento faceva il suo mestiere, la figura ben costruita ondeggiava a suggerire possibili spostamenti e soprattutto in primavera, quando spruzzi vegetali vagolavano in un corrispondere terreno al movimento celeste di nuvole spensierate, sembrava davvero il fantoccio potersi aggirare a piacimento.
A questo ogni anno imprendeva il fattore durante certi invernali giorni di tedio, per tanto più stimolato a fantasia onde affrettare in creatività il giorno d'inizio lavori, quando finalmente tornare egli padrone del suo campo e di ciò che esserne doveva.
Ecco dunque che, alle prime giornate accettabili, lo spaventapasseri appariva a guardiania, perseverante collo stile delle genti laggiù, capaci di cambiare il paesaggio a loro immagine, o sé stessi a immagine di quello.
Il simulacro stava per mesi a compagnare i lavori ma soprattutto a veglia dei preziosi frutti e si beccava l'afa e l'intemperie; stendeva ombre lunghe mattino e sera; svaniva quasi, nella nebbia o nel sole abbagliante; si ergeva, unico, quei giorni in cui il riflesso della luce sembrava avere fatto pulizia d'ogni ombra.
Era fedelmente attento alla coltivazione, scandiva il tempo coi movimenti del capo, o accompagnava gli avvenimenti del terreno colle sue fluenze tessili o vegetali, o sottolineava di suono qualche inconoscibile episodio del misterioso crescere e moltiplicarsi della vita animale e vegetale.
Di tale vita diveniva esso parte, acquisendo pollini e profumi, ospitando microscopiche entità che del suo incarico nulla sapevano, affaccendate a vivere; talvolta s'impigliavano foglie e certi filacci soffiati chissà di dove, piantaggini di altro contadino o anarchica produzione senza padroni.
Passava così la primavera, diligente adempiendo alla deterrenza e rappresentando un elemento di folclore e d'estetica; si gonfiava di pioggia e d'umori diventando bruno o quasi nero, bruciava nel sole e il suo fieno ingialliva ancor più, mentre l'opulenza intorno si seccava per quindi prodursi in piante nuove; vegliava sull'uomo che faceva del suo per favorire la coltura e quindi coglieva; testimone era della spoliazione finale quando, tutto compiuto, la terra veniva messa a riposo, dalla natura con il consenso dell'uomo, per cominciare un giorno un altro ciclo.
L'ultimo atto era suo, l'ultima presenza della stagione. Il contadino s'appressava alla sua creazione senza potersi impedire, né volendolo, un certo che di cerimonioso, estraeva il palo da terra e caricava il pupazzo sul carretto. Sempre in mezzo al campo lo portava e su un braciere di sassi a bella posta adibito l'abbruciava, mentre l'incendio della sera sembrava avvolgere e sussumere il focherello in sé. Il contadino rimaneva immobile a contemplare fino all'ultima scintilla, poi si volgeva, se ancora c'era, a quanto restava del sole. Quindi lasciava che l'oscurità scendesse ancora un poco prima di rientrare. Avrebbe pensato il giorno dopo a prendere le parti incombuste che sarebbero tornate i rottami d'inizio stagione. Altri rottami, e altre stoffe, e altro fieno avrebbero, di lì a mesi, soddisfatto il successivo bisogno.

Calava dunque la prima notte nel campo senza quel particolare manufatto o, per meglio dire, senza la sua presenza fisica, ma lo spaventapasseri da quel momento entrava nella compagine di tutti i suoi predecessori che, resi fumo, non per questo venivano meno.
Di giorno, per tutta la stagione, una sola immagine vegliava ma quando la luce, scemando, attenuava ogni cosa alla vista e poi l'oscurità, per ore, del visibile restante faceva miscuglio creando forme nuove, difficilmente si sarebbe potuta negare la presenza di molte figure, quante ne aveva fatte il contadino in tutti gli anni, non ben riconoscibili.
Di giorno, per il fantoccio solo nel campo era tempo di seria concentrazione sul dovere; la notte era confusione, baraonda mentre tutti gli spaventapasseri, ormai liberi da impegni, fluidamente percorrevano lo spazio pieno di piante e animaletti che poco capivano dell'etereo gironzolare dei festanti. Erano sovrapposti così questi due campi: uno luminoso di forme certe, del fervido operare di natura; l'altro di giochi e sberleffi, di figuranti liberati nel fumo d'un falò che li rendeva guizzanti, imprendibili folletti. Quando il buio arrivava, l'unico abitante del luogo diventava esso stesso uno dei tanti indefiniti movimenti che si sarebbero potuti cogliere, se occhi adeguati si avessero.

Così, anno dopo anno, la schiera dei compagnoni accoglieva un nuovo amico alla gazzarra.

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