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La telefonata

Era figlio unico. Quando aveva trovato lavoro in un'altra città non si era tirato indietro, ma ogni sera faceva una telefonata ai genitori. Quando poi sua mamma era rimasta vedova, aveva preso a passare più spesso le feste con lei e quand'era lontano continuò a telefonarle ogni sera, alla stessa ora, perché si sentisse meno sola; poteva capitare che un giorno saltasse la chiamata, ma erano casi rari.
L'uomo cresceva una vita da scapolo con lavoro, interessi, conoscenze, null'affatto isolato o senza risorse, ma non visse mai con alcuno, per matrimonio o condivisione o altro. Le sere in cui restava a casa, e negli anni divennero sempre più frequenti, la telefonata a sua mamma era parte di un rituale abitudinario. Ebbe sempre cura di attivare qualche promemoria che gli ricordasse di chiamare.
Fu così che quando sua mamma morì, sulle prime non se la sentì di cancellare l'evento programmato. Il promemoria lo richiamò, al paese, nei giorni tristi del funerale e della coda di incombenze connesse; poi continuò nei primi tempi del suo perplesso rincasare in un appartamento da scapolo che gli sembrò vuoto come mai prima. Non aveva disdetto il telefono, non aveva vuotato la casa di sua proprietà; sembrò un gesto di semplice nostalgia attivare la chiamata e restare in attesa mentre gli si succedevano tutti gli squilli, fino a che la linea non cadde.
La prima volta si sentì stranito, mise giù l'apparecchio e si guardò intorno: il locale era parso tornare indietro nel tempo, assumere l'aspetto della casa di un figlio che aveva chiamato sua mamma, anziché la casa di un orfano adulto. Una differenza presente solo nel suo sentire, certo, ma non è il nostro sentire, spesso, a cambiare l'aspetto delle cose nonostante l'ineluttabilità del dato fisico, dell'oggettivo che reclama arcigno la priorità?
Restò a pensare: a quella casa vuota di presenza in cui aveva risuonato il richiamo. Lei non aveva risposto; non poteva. Pure, gli parve restituito, alle stanze lontane, un che di corretto. Come i gesti compiuti laggiù, nei giorni del primo cordoglio: si era ritrovato a raddrizzare lungamente una tazzina, in soggiorno, come cercando col suo posizionamento maniacale di ripristinare un equilibrio, o almeno di contrastare uno spavento di crollo, iniziato con la morte della mamma e forse capace di coinvolgere l'intera casa, la via, il paese e chissà quant'altro. La casa che non sembrava da sola poter sussistere, la sua permanenza era garanzia di continuità; la via che tanto spesso l'aveva accolta e rappresentava un'espansione, o forse meglio una pubblica attestazione di esistenza in vita; il paese che aveva dato grembo alla storia, agli aneddoti. E poi? Fino alla città in cui egli figlio viveva, lui tramite?
Ma lo squillo l'aveva placato. Tutto poteva continuare, una semplice abitudine rimetteva in sesto il pezzo di mondo malfermo, nonostante la perdita d'una colonna.
Non ebbe coraggio, il giorno dopo, di ignorare l'avvertimento e richiamò. Altri suoni cadevano nell'assenza, altra risposta impossibilitata.
Si ritrovò così: da una parte la stampella che tutto manteneva retto e dall'altra un risucchio di passato ch'egli, pure rimproverandosi, non sapeva estinguere. Era, forse, la paura di perdere i ricordi? Come se una ripetizione potesse rimuovere patine, impedire consunzioni, mantenere solidità a cose che, per leggi universali, trasmutando più non sono. Sì, in lui un moto a ripristinare; se ne rese conto, dopo l'ennesima chiamata, mentre cercava di fissare un senso alla sua abitudine: guardò la casa e riconobbe, come non prima, i segni di quel desiderio, cose che, mutando, in realtà servivano da richiamo a com'erano state. E dagli oggetti prossimi agli avvenimenti anche lontani, a cambiamenti in realtà riassetti, se non di un precedente effettivo, di una immagine in precedenza accettata come autentica. Ecco: tutto compiuto al fine di stabilizzarsi nell'idea che s'era fatto della vita, a scapito dei fatti e a beneficio di un'illusione.
L'uso ebbe una pausa quando fu egli stesso presente in quella casa, a svago della quotidianità spesa altrove; una vacanza come le altre che faceva. In quei giorni passò in rassegna reperti e fotografie della fotografia tridimensionale che era diventato l'appartamento, mosso il minimo indispensabile alle necessità ordinarie, pulizia e manutenzione curate per impedirne lo sfocamento.
Qualche volta si sedette là dov'era solito, se chiacchierava con la madre o insieme guardavano un programma. Ci restava quasi fosse il tempo sufficiente ad accertarsi di non ricevere parola, dopodiché si occupava d'altro o usciva.
In tutto ciò, come a riguardare non una foto, ma il film tutto intero dei suoi ricordi, tutto quanto restava delle persone andate. Anche gli spostamenti in paese erano fatti come a perpetuare una consuetudine.
Verso la fine del periodo, una mattina si alzò senza guardarsi attorno e aprì come sempre la finestra. D'un tratto ebbe la sensazione che qualcosa mancasse, un non so che di sbagliato. Guardò la camera: era tutto lì, come l'aveva lasciato la sera prima. Istintivamente cambiò stanza nel tentativo di trovare l'elemento mancante ma si fermò sulla soglia. Cosa cercava, cosa mai avrebbe potuto esserci, nel guscio vuoto che si ritrovava intorno? Restò, così, spiazzato, rendendosi conto solo allora della finzione disperata. Turbato, uscì, per trovare anche fuori solo parvenze, un fondale abbandonato per una recita non più in cartellone.
Fu così che la casa dei suoi smise di essere meta di viaggi. Gli bastò sapere che qualcuno passasse ogni tanto a rassettare, il puro scrupolo di una persona metodica.
Eppure, il giorno della partenza non riuscì ad evitare una piccola esitazione, mancandogli di salutar qualcuno che restasse.
La telefonata, quella no, non seppe abbandonarla. Ci provò, riuscendoci, la prima sera dopo il ritorno, per cedere la sera dopo. Immaginò il suono riempire il vuoto, rimbalzare inutilmente.
Era la sua debolezza, il modo per non recidere l'ultimo filo d'un legame e insieme per chiarirsi la distanza fra il suo presente e ciò che non era più, la mancata risposta a render chiara la differenza. Una rassicurazione buona come un'altra per sapersi vivo. L'ossessivo rimando a un obbligo, necessità non sua ma di un ordine superiore, tramandatogli come diga al non perdersi nel fluire che cambia ogni cosa, identità ad un modello di cera che si teme possa squagliarsi, quando l'entropia prevalga. Era il suo modo di interpretare la scandalosa discontinuità dell'esserci fatto nemico al divenire, anziché da quello e per quello motivato.
Con mano ora tremante, ora sicura; lo sguardo sulle sue cose, o perso mentre pensava a fatti altrove; distaccato e ridendo di sé, dell'infantile concessione ai sentimenti, oppure compreso nel rito privato, contando la litania di suoni. Spesso da solo, o fingendo una giustificazione se era con qualcuno. Quasi ogni giorno, per anni, continuò.

Poteva essere dopo una notte di sonno agitato, quando un dormiveglia insicuro rende immagini capaci di rendere pesante ogni paura; poteva essere il momento, ci dicono, in occasione dell'ultimo sospiro mondano, quando rivedere la propria vita ha il doppio senso di un riepilogo e di un ripensamento, come a precedere nella consapevolezza il giudizio predicato dalle religioni; poteva essere che, alle volte, si procede a salti buoni a segnare un dopo che, erede e conseguenza di quanto prima, dal prima è irrimediabilmente allontanato. Quando venne il momento, fu una madre affannata a sembrargli incontro.
"Figlio mio, o mio figliolo!" gli disse, la voce assente da lui sentita.
"Quale sopportazione ho mai dovuto, quanta passione m'è toccata per la tua tenacia! Ho mai mancato una risposta, ho mai mostrato che non fosse più che benedetta, la tua caritatevole gentilezza? E quanto l'attendevo, e la gradivo, e la pregustavo!
"Tanto maggior dolore m'hai procurato, o mio figliolo caro, a trattenermi così. Non immaginavi il crudele ricatto: io che avrei dovuto rispondere, e non potevo. Me ne sarei anche dovuta andare, e non potevo nemmeno questo.
"Sapessi il dolore, a non poterti rispondere così come ti rispondevo in vita, o figlio mio. Eppure non mi potevo allontanare di lì, da quella posizione di attesa inerte, ché se prima, fra una telefonata e l'altra, avevo pure il poco di un sospiro, la semplicità dei gesti abituali, questi mi erano ormai negati e stavo nel mio limbo d'impotenza, incapace d'altro che di non poter esserti risposta. Così io stavo, senza potermi svegliare ma ben consapevole del sogno che pian piano diventava un incubo.
"M'eri una catena dolorosa. Non l'unica, stante che a troppe m'ero legata, a risentimenti e nostalgie. Ma queste passano, al tempo debito, mentre il tuo richiamo non passava ed io me ne stavo sempre più prigioniera, frammezzo al morto residuo che mi ero accumulata, di oggetti d'una casa digià abbandonata.
"E quanta fatica mi durava, quel circondario di cose inerti, da non poterle allontanare e formavano un ridicolo panorama alla prigionia. Ne avessi tu fatto quel che se ne fa di solito: regali, svendita, un gran falò! E invece me l'hai mantenuto a guardia, ché non fuggissi, congelata come nemmeno la mia vecchiaia era riuscita a congelarmi, nei giorni stanchi sempre uguali. Ma io, una tazzina ben la sapevo spostare!
"E quale più la fatica, al vederti attendere una compagnia impossibile mentre io soffrivo la tua per non poterla ricambiare.
"Perciò succede quello che mi ripugna, che godo a sapere di non risentirti mai più, che non ci sarà nuovamente chi, per quanto con buone intenzioni, mi incateni.
"Non farai quella telefonata, né domani ne mai, e io sarò libera di affrontare un destino purchessia ma che mi appare in ogni caso una liberazione.
"Addio, mio figlio, caro figliolo mio."

E fu appunto la staticità d'una fotografia ad avvolgerglisi intorno, mostrandogli quanto poco innocente fosse, il suo duello segreto con l'eternità, quasi a potersi prendere gioco dell'universo per farlo durare ed essere al modo che intendeva. Così altre durate gli s'imposero.
Era giunto a forza al punto di rottura in cui non si può dilazionare. Viene sempre il momento in cui il vestito si strappa, in cui si capisce quanto s'era finto di non sapere, a trasformare un ben calibrato piano in una scomoda verità. Ma quando c'è tempo, è il tempo stesso a riunire anche l'indigeribile nell'apparenza d'una storia coerente; invece il suo tempo era scaduto e doveva restare con quelle telefonate sospese, non risolte, uno fra tanti pesi.
Per una madre imprigionata nella fissità, ebbe l'accelerazione di quando la faglia si scatena e tutto di sopra è scosso; ebbe il subitaneo rincorrere del moto intorno a sconvolgere l'essere e la materia; fu prigioniero a sua volta ma del cambiamento, a purgargli ogni dilazione mentre constatava il suo ritardo a vivere e l'angosciosa rincorsa agli appuntamenti mancati.

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