top of page

Il sogno del contadino

In un'epoca qualsiasi, in un posto qualsiasi, un qualsiasi beeralay si coricò sul suo giaciglio, stringendosi fra sé per il freddo.
Aveva mangiato poco, s'era affaticato dietro un albero che quell'anno aveva dato pochi frutti e piccini. La casa era un tugurio, soprattutto gli appariva tale da quando aveva visto da lontano le nuove scuderie della cavalleria, i cui muri per bestie erano tanto più accoglienti dei ripari destinati alla maggioranza della gente.
Stringendosi nella copertura scarsa d'un letto malfatto, per la stanchezza si addormentò. E dormendo sognò e, sognando, gli parve d'essere in un mondo strano, da non sapere darsi un nome di nulla che vedesse, lui capace di insegnare i nomi d'ogni prodotto del suolo ai suoi figli, finanche le celate erbe del sottobosco oltre i campi, là dove il precario ma noto mondo degli umani lasciava il posto, da una parte ai possedimenti del Signore, umano solo a metà, e dall'altra agli abitanti della foresta, misteriosi.
Nel luogo in cui sognava di trovarsi però non c'erano erbe, invece muri dappertutto, e folla indaffarata in chissacché.
Rimase, timoroso di muoversi, in una confusione che, sfiorandolo, restava appena consapevole della sua presenza, giusto un'occhiata rapidissima da qualcuno dei passanti che si muovevano in ogni direzione. Solo uno stette a guardare meglio il ֆերմեր, benché anch'esso preso in gesti incomprensibili con oggetti ignoti. Lo sguardo durò abbastanza a lungo per fargli trovare il coraggio di una parola.
"Scusate, mio signore. Abbiate la compiacenza di spiegarmi che luogo sia questo, e alcune delle cose che vedo. Il vostro servo è troppo ignorante per capire."
L'uomo lo osservò un po' sorpreso poi sorrise, si guardò intorno e chiese:
"Ti ha mandato Serse, vero?"
Sembrava divertito, ma il فلاح ebbe timore che il sorriso preludesse a qualche guaio, come la volta in cui un soldato aveva sorriso a uno del paese. S'affrettò dunque a chinarsi.
"Non conosco costui, mio signore, ma il vostro servitore chiede umilmente lumi e aiuto."

Ettore sentì un brivido: aveva sempre amato abbandonarsi alle fantasticherie, ma trovarcisi sprofondato non era affatto divertente.
Lo sconosciuto gli aveva parlato in una lingua morta, praticata faticosamente da due sole altre persone presso l'università. Stando a quello che credeva un gioco, aveva replicato nello stesso modo immaginando di smascherare uno scherzo, ma non solo le antiche parole erano state comprese: aveva anche ricevuto una risposta, e quale! Tutt'altro che perfetta, secondo le sue nozioni, ma plausibile e anzi con un colore di autenticità che i reperti raramente conservavano.
L'aspetto non era di un ricercatore capace di reggere la finzione, anzi di un γεωργός ancora giovane ma ingrigito dagli stenti di un'epoca difficile. Proprio come sarebbe sembrato, se fosse davvero giunto a lui da un'epoca remota...

Il nông phu ebbe paura, mentre lo sconosciuto cambiava infatti il suo sorriso in una serietà sospettosa, ma si tranquillizzò un poco quando lo sentì chiedergli, con un buffo accento:
"Come ti chiami?"
E prontamente glielo disse.
Ettore ritenne che sì, l'impossibile era avvenuto. Quel nome non figurava in nessun documento noto, non avevano costruito un personaggio. Per un attimo si figurò un Potere Oscuro, in possesso di reperti segreti, complottare a danno suo e di tutta la ricerca storica; chissà, per screditarla e porre l'ennesima coltre di buio sull'aspirazione umana alla conoscenza... infine ritenne meglio contentarsi del già assurdo presente, senza fare ipotesi buone per qualche fumetto e agire in accordo colle apparenze.
"Sei finito in un'epoca futura, molto tempo dopo la tua vita." Disse e, poiché l'altro lo guardava incerto, cercò di spiegarsi, adattando alla bizzarra situazione uno scarso vocabolario. "Il tuo spirito ha viaggiato fino a me, non so per quale ragione. Dimmi, qual è l'ultima cosa che ricordi?" aggiunse.
"Il tuo servo era a letto, e stava addormentandosi dopo una giornata di fatiche." Rispose lo mpamboly stentando a prendere coraggio, così interrogato.
"E dopo?" insisté Ettore.
"Dopo mi sono trovato in mezzo a tutta questa gente, e non capisco nulla."
"È difficile spiegare. Molte di queste persone stanno andando a lavorare, alcuni... studiano, altri..." ma le parole non lo aiutavano. "E perché hai fermato proprio me?"
"Non lo so, signore. Ma di ogni persona eri quello che meno correva, e anche..." esitò, in dubbio se osare: "il meno arrabbiato."
Ettore si guardò nuovamente attorno. Era vero: benché qualcuno dei passanti lanciasse ad altri una risata, la diffusa fretta dava all'espressione di ciascuno il tono di un leggero fastidio.
"Credo siano preoccupati per quello che devono fare, il loro lavoro..."
"Ma dove vanno a lavorare? Non hanno attrezzi."
"Oggi il lavoro è molto diverso."
"Nessuno coltiva la terra?"
"Ovviamente sì, ma non c'è bisogno di tanta gente."
L'espressione perplessa dell'ignoto visitatore poteva essere dovuta a un errore linguistico o alla difficoltà di immaginare che per la produzione di cibo non fosse necessario, come ai suoi tempi, devolvere la quasi totalità delle umane energie. Ritenendo perciò di dargli gradita notizia, gli disse:
"Vieni a vedere."
E lo accompagnò fuori dall'atrio dell'albergo dove era andato per incontrare un ospite dell'ateneo.

 

L'individuo spaesato non fece due passi fuori dal portone che arretrò colmo di spavento. Era tutto un rumore di oggetti enormi che si muovevano minacciosi fra la gente, di fumo e confusione.
L'altro lo prese gentilmente per un braccio, gli disse tante cose che egli non capì ma decise di fidarsi avvicinandosi con lui, pur esitante, a uno dei mostri colorati.
La gente lo guardava curiosa e li osservò a sua volta. Sembravano tutti in salute e giovani, anche chi poteva essere vecchio aveva l'aspetto vigoroso. Si sentì il miserabile che sapeva di essere, osservò i propri abiti e quelli dell'accompagnatore.
"Dimmi, signore, i tuoi vestiti di che sono fatti?"
Ettore si rese conto allora di quanto il suo ospite stesse attirando gli sguardi. Con gesto plateale, si tolse l'ampio cappotto e disse, nella propria lingua:
"Ora però riprenditi almeno il cappotto, visto che il teatro è ancora lontano."
La frase non sembrava convincente, ma l'aspetto del nuovo arrivato fu reso quasi accettabile e l'invito a farsi i fatti propri ottenne fra i passanti il risultato voluto.
Il Bauer tastò il caldo abito, ne gustò la comodità e la leggerezza; poco dopo averlo indossato stava già meglio.
"Non hai freddo, signore?"
Ettore sorrise e dalla sua borsa prese una giacca più piccola. Aveva una borsa con abiti!
"Quanti vestiti hai?" chiese ammirato.
"Diversi."
"Sei ricco, dunque."
"Per niente. Qui, tutti hanno molti abiti."
Un mondo di gente pasciuta e ben vestita!
"È certo un futuro felice. Sono contento."
L'uomo perse il sorriso, meditabondo, facendolo entrare in macchina. Diede un indirizzo al tassista e tacque. Il paysan mantenne la calma solo per la fiducia nel suo accompagnatore, mentre vedeva correre intorno a sé un panorama incomprensibile. Ettore si avvide di un leggero malessere nell'altro, gli spiegò che era meglio poggiare il capo e chiudere gli occhi; con suo sollievo, i consigli vennero accolti.

 

Usciti di lì, entrarono in una costruzione stranissima, anch'essa piena di gente indaffarata.
Di nuovo sorridente, il suo ospite lo guidò nella confusione fino a un'enorme raccolta di frutta e verdura. Non solo era abbondante, ma ogni pezzo era ben più grande di quelli che conosceva, con colori vivaci e lucenti. Si avvicinò come ad un tesoro.
"Come possono crescere piante simili?"
Ettore si rese conto che una visita al supermercato presso casa sua era forse troppo, ma gli era venuta la stupida idea di mostrargli i moderni risultati del lavoro nei campi come antipasto alla presentazione del suo mondo. Brevemente gli indicò le confezioni di cibo pronto e di bevande, non riuscendo però a trovare frasi adatte a descriverle. Aiutò l'uomo a scegliere alcuni dei prodigi esposti e approfittò per fare piccole compere; il pagamento alla cassa avvenne in contanti, data la piccola somma, provocando lo strabuzzar d'occhi dello straniero e i conseguenti sospetti della cassiera.
Usciti di lì, fecero due passi fino alla casa di Ettore. C'era bisogno di tranquillità per entrambi. Il suo compagno ebbe un moto di paura mentre le porte dell'ascensore si chiudevano ed Ettore gli teneva un braccio per dirgli che tutto andava bene; poi di stupore quando, all'apertura, si trovò in un ambiente diverso. Ettore rimase un certo tempo a seguire l'ospite mentre toccava stupito sedie e divani, poi lo guardava prima di provarli, in una muta domanda. Si avvicinò alla finestra ed Ettore non fece in tempo a prepararlo:
"Siamo in cielo!" gridò.
"Fanno case molto alte, ma sono sicure."
Accompagnò l'altro a sedere e lasciò che si rilassasse. Che doveva fare? Portarlo come reperto straordinario al prossimo convegno? Farsi insegnare tutto il possibile prima che, com'era comparso, svanisse? E null'avrebb'egli potuto, del molto appreso, senza una prova; c'erano, per esempio, delle questioni lessicali che vedevano lui, Serse e un altro studioso su posizioni divergenti: non avrebbe potuto sostenere le sue ragioni portando un fantasma a sostegno.
Povero piccolo omino del passato, te la dovevi passar male ai tuoi tempi, e adesso a che servi?

 

Intanto l'ospite sembrava avere ritrovato una certa calma. Stava seduto, l'aria attenta, guardando e ascoltando.
"Quanto rumore, c'è!" disse guardando Ettore, il quale si stupì: il suo appartamento aveva di buono proprio la tranquillità. Ascoltò attentamente: ecco il ronzio del frigorifero, il rombo attutito del traffico, tanti altri dispositivi, motori e folle che dicevano la loro, tutti insieme. Senz'altro colui avrebbe potuto dargli un punto di vista nuovo sulla sua vita.
Ma quell'uomo aveva anche altro in mente.
"Le cose che hai pagato, signore... a che serviranno?"
Ettore decise che poteva solo mostrarglielo. Prese le viti, il cacciavite, e gli mostrò come si smonta un interruttore, non prima di avergli fatto vedere l'inaudito miracolo della luce chiamata a comando.
Prese le lasagne surgelate e le cosse fuori orario ("Le mangerò fredde, pazienza"), estrasse una bevanda dalla dispensa, aprì il nastro adesivo e lasciò che lo sconosciuto ne consumasse metà giocandoci, divertito e confuso.
Quando il profumo di cibo lo attirò, il nastro perse interesse. Ettore, maledicendosi per non avere considerato le condizioni di evidente penuria in cui l'altro si presentava, diede un cucchiaio all'uomo che, dopo averci furiosamente trangugiato le lasagne, lo osservò come un oggetto prezioso.
"Ti piace?"
"Signore, tu hai cose raffinate. Sei il padrone della città? Ho visto come pagavi, con tanto denaro: non ho mai visto tanto denaro. E tutto il cibo, e questi prodigi: l'acqua, la luce, il freddo e il caldo. Io credo di essere nel mondo degli dei, e che tu sei una divinità."
Ettore temette di vederlo prostrarsi. Riteneva indecoroso che un umano si prostrasse a un altro, ma che qualcuno si facesse passare per una divinità era un abominio e non se la sentì di permetterlo nemmeno come comoda bugia, perciò lo prevenne e si inginocchiò a sua volta, prendendolo per le spalle.
"Ascolta, ho una buona notizia. Non cambierà la tua vita, forse, ma è proprio bella. Io sono una persona come te, non sono più potente di te. Hai visto tutte quelle persone? Ecco, lavorano per costruire queste case altissime, e preparare questi cibi, e fare le cose prodigiose. Perché nel passato alcuni hanno guardato con attenzione, e capito i segreti della natura, e allora molti si sono impegnati: hanno coltivato meglio la terra, hanno scoperto il modo di costruire tutto ciò che hai visto e molto ancora. E hanno spiegato a tutti che, con il loro lavoro, e studiando, e tutti insieme, potevano vincere ogni difficoltà. Questo hanno imparato e lo hanno insegnato a tutti."
L'uomo lo ascoltava, la bocca aperta, lo sguardo indecifrabile. Ettore aveva dato fondo al suo vocabolario e non seppe cosa aggiungere. Lasciò che l'altro sedimentasse emozioni e concetti. Infine colui parlò, con una voce gracchiante stupore.
"Tutti gli umani? Tutti con cibo, casa, vestiti?"
Lo straniero, ginocchioni davanti a lui, ebbe un moto di indecisione, sembrava che cercasse di spiegare qualcosa ma un suono spaventò entrambi; quello si alzò e prese un oggetto come ne aveva visto in mano a tanti, là fuori. Disse brevi frasi in una lingua sconosciuta: a chi, a cosa, a quale demone parlava? Sentiva come una voce soffocata, quasi venisse dall'oggetto; infine l'uomo poggiò l'arnese.
"Dimmi, signore, che magia è questa?"
"Possiamo sentire la voce di gente lontana. E possiamo anche vederci."
Il mago suo ospite compì l'ennesimo gesto incomprensibile e da un muro vennero immagini e suoni che non capì. Allora quello prese altri oggetti e le immagini divennero costruzioni in rovina, mentre una voce parlava.
"Ecco - disse Ettore - questo è un palazzo dei tuoi tempi. Lo hanno scoperto dieci anni fa."
"Tutto distrutto!"
"Molto tempo è passato. Io studio i tuoi tempi e per un miracolo incredibile sei arrivato da me: l'unico che ancora conosce la tua lingua." Ettore ritenne inutile specificare il numero, comunque ridotto, degli addetti ai lavori.
Ettore si rese conto di saperne più dell'altro sul suo stesso mondo; mosso dall'entusiasmo per una materia che lo appassionava, gli mostrò altri filmati e libri, raccontandogli una storia con molte parti oscure, difficili a ricostruirsi per la scarsità di documenti; tentò di capire da quale momento storico esatto fosse venuto l'uomo il quale però conosceva di sé nient'altro che la fatica quotidiana e l'ingiustizia dei forti.
"Mi dispiace, signore, ma non ho mai visto altro che il mio villaggio. Tu, invece, raccontami qualcosa di questo mondo tanto strano."
Ettore aveva finito il repertorio immediato delle meraviglie da mostrargli e raccontò brevemente degli imperi, delle guerre e migrazioni succedutesi, come per dare conto del proprio essere lì.
"E quando avete cominciato a diventare così?"
"Così come?"
"Diversi; siete... diversi. Non assomigliate a quelli come me, ma neanche a soldati o nobili o altro."
Ettore fu colto di sorpresa dalla domanda e l'altro incalzò.
"Fammi sapere altro di questo mondo."
Non trovò di meglio che dargli una panoramica mediante un computer. Cercò di spiegargli, in una lingua concepita per altri scopi, come il sapere umano potesse essere facilmente accessibile, ma incapparono in immagini terrificanti di guerre e disordini. Ettore si era sentito quasi l'officiante di un laico rito della conoscenza, non considerando lo spirito d'iniziativa con cui l'inesperto al suo fianco aveva chiesto di toccare a sua volta l'oggetto, stupendolo per la rapidità con cui imparava; un'immagine imprevista e la richiesta di altro sapere.
"Fammi vedere ancora quelle macchine volanti che seminano distruzione."
"Spiegami perché vengono uccisi quei vecchi."
"Dove porteranno quella gente?"
Si era rimpinzato di ciò che il suo frigo offriva, manifestando sorpresa ogni volta, commentando la quantità, ripetendo continuamente che egli era ricco e felice, ma la sua voglia di vedere il mondo, dopo l'iniziale gioia per le bellezze naturali e umane, si era inceppata nella contemplazione dell'orrore.
Ettore fu costretto a spiegare atrocità e guerre, omicidi e faide.
"Ma allora tutta questa ricchezza non serve a nulla? Per questo le persone che ho visto fuori sembrano arrabbiate?"
"Contadino, scarpe grosse e cervello fino", si disse Ettore, il quale era stato ingenuamente convinto che per avere un cervello fino si dovesse studiare tanto. Anche per tale sotterranea convinzione, in fondo, aveva effettivamente studiato, acquisendo molte nozioni ma non riguardanti il modo di essere contento.
"Si possono ricevere doni" meditò ad alta voce "ma la felicità non si può donare."

 

La sera calava, entrambi repressero contemporaneamente uno sbadiglio di stanchezza: erano provati da troppe scoperte su troppi mondi e troppa umanità.
Ettore accompagnò l'altro a un comodo divano, quegli si consegnò all'ignoto abbraccio e lui ne ricoprì l'abbandonato giacere.

 

Uno mkulima perplesso riconobbe, svegliatosi, i contorni annottati dell'abitazione usuale. Riconobbe anche il sospiro con cui la donna a fianco, forse richiamata da un brusco movimento dell'uomo, pronunciava il suo nome quietamente, nel sonno.
Ebbe paura. Qualche spirito notturno aveva saputo cogliere uno spiraglio nell'anima e aveva iniettato uno spavento pieno di confusione. Era forse questo l'inizio della pazzia? Ma non poteva essere: aveva toccato veramente gli oggetti, aveva davvero mangiato! La sazietà che sentiva era la prova: non ci si riempiva la pancia di visioni, i sogni non lasciavano sapori sconosciuti in bocca.
Ma la notte manteneva il potere di terrorizzarlo. Restava sdraiato per non svegliare nessuno ma l'immobilità era una tortura per lui che sentiva il bisogno di fuggire, di agitarsi scompostamente come potendo così scrollare via l'agitazione.
Sentì il rumore del proprio respiro agitato e si sforzò di contenerlo. Le molte visioni si confondevano nel ricordo ma, contrariamente ad altri sogni, mantenevano un'apparente coerenza, quale hanno i fatti della veglia e non i deliri.
Dunque era così, si disse: in un'epoca presumibilmente lontanissima, gli esseri umani avranno ragione della natura avara, sapranno ingegnarsi nel trovare soluzioni alle avversità, costruiranno secondo i propri sogni e faranno sogni nuovi, realizzando pure quelli. Troveranno il modo di costringere un albero a dar loro i suoi frutti.
Si sentì privilegiato in modo speciale per avere potuto, anche solo un attimo, godere una tale contemplazione.
Ma questo, considerò, non potrà bastare a ridurre la fatica: ovunque, gli umani si faranno guerra, schiacceranno i simili, vivranno scontenti temendo chissà che. Infine la loro vita sarà spazzata via; e non solo quella dei miserabili come lui, ma pure quella del loro Signore, con tutti i suoi soldati, verrà sepolta dal tempo e dalla terra, erosa dal vento e dai vermi. E lui, un pezzente, non stava meglio né peggio del Signore, dei progenitori sconosciuti, degli incomprensibili discendenti; tranne forse l'ignoto studioso che l'aveva ospitato il quale, nel suo sguardo al di sopra della Storia, era sembrato comprendere e sfuggire l'insensatezza umana. Cercò di ritrovare il volto di quell'uomo, dall'età indefinibile: adulto certamente, era un giovane il cui molto sapere faceva vecchio, o un anziano mantenuto in ottimo aspetto dalle sorprendenti capacità manifestate? Non poteva saperlo.
Provò un'emozione da non saper dire sentendosi all'altezza dei destini umani, delle umane ricchezze, della conoscenza di tutta la sua specie. Contemporaneamente sperimentò un sordo risentimento per la follia e l'egoismo dei suoi simili, capaci di trasformare l'abbondanza in miseria e impedire a tutti, e a lui in particolare, di goderne almeno un poco.
Il contadino si voltò ancora al contorno appena visibile del volto accanto a sé. Ne aveva conosciuto il passato faticoso e ora ne comprendeva il futuro, inutilmente diverso. Il suo calore gli fece sentire tutta la solidità dell'esserci, in quel luogo e in quel momento, e fu un attimo presente all'uomo in tutto il vigore dell'esistenza, che gli si presentava violenta e magnifica.
Resistette all'impulso di scuoterla per raccontarle chissà poi che cosa, dato che non aveva parole per dirlo, e pianse l'immensità irraggiungibile di una visione che il giorno ormai prossimo stava già cancellando.

beeralay

ֆերմեր

فلاح

γεωργός

nông phu

mpamboly

Bauer

paysan

mkulima

fermer

fellah

gheorgòs

somalo

armeno

arabo

greco antico

vietnamita

malgascio

tedesco

francese

swahili

bottom of page