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Il peso

L'avevano curato bene. Era tra i fortunati con una sanità decente a disposizione, non poteva dire altro: quel che si doveva fare, era stato fatto. Magari avesse potuto, con tale sicurezza, dire altrettanto di sé; al confronto, la scienza medica risplendeva di cristallina semplicità, nonostante le tortuosità diagnostiche, cure di complessità crescente, infine le involute formulazioni dell'esito prossimo.

L'impaccio dell'attrezzatura medica si fece fastidioso; le parole, udite appena, assunsero un tono e significati estranei, ebbe un sussulto come di paura o eccitazione, e nient'altro.

 

Si ritrovò a galla, aggrappato ad una zattera. Giusto il tempo di capirlo e subito si sentì tirare giù; per un momento la sua testa sprofondò, ma l’istinto lo indusse a stringere, a tirare e così tornò all’aria. Rimase diversi secondi fermo, le braccia tese a mantenerlo in posizione. Incredulo e spaventato, trasformò i respiri in versi confusi, una specie di pianto strizzato, più che infantile animalesco, mentre cercava di capire. Sentiva un peso in basso e per un poco non osò muovere che gli occhi: vide soltanto la zattera e, intorno, una ininterrotta distesa d'acqua, grigia sotto un cielo uniforme e incolore. Fu consapevole di avere le forze dei suoi anni migliori; la cosa gli sembrò assolutamente normale.

Non riuscì a tirarsi a bordo, troppo il gravame, e cercò di guardare sott'acqua; un enorme sacco gli era legato davanti ed era questo a trascinarlo. Si capiva che conteneva molte cose, la forma irregolare delle quali aumentava il disagio della zavorra.

Cautamente, abbandonò la presa di una mano e ispezionò il sacco. Cercò di scoprire come fosse legato e sentì vari lacci, lungo il bordo, che gli si attorcigliavano da ogni parte: alle gambe, al tronco, su fino al collo; provò se si potevano sciogliere ma tastò una serie di nodi complicati: non c’era modo di farlo, in quella posizione, con una mano sola. Di issarsi non si parlava: oltre ad essere pesante, il sacco rimaneva sotto la zattera, davanti a lui. Provò, senza convinzione, a ruotare e metterlo in posizione favorevole per spingerlo, ma si rese subito conto di non averne la forza.

Ebbe un moto di sconforto, guardò sotto e la vista dell’abisso lo impressionò, perché l’acqua sembrava limpidissima ma non si riusciva a scorgere altro che la profondità. Ebbe un tremito, mentre la testa gli girava e istintivamente si strinse al pezzo di zattera che, in rilievo, gli aveva permesso di non affondare. Non poteva perdere altro tempo: le forze sarebbero scemate, prima o poi, e non osava pensare alla conseguenza.

Fece in modo di appoggiarsi meglio, affinché il corpo facesse resistenza alla trazione, poi allungò il braccio verso l’imboccatura del sacco. Cosa mai si portava dietro, come gli era stato legato quell’impaccio?

Con un certo sforzo, riuscì a infilare una mano per raggiungere il contenuto. Si sentì come in certi momenti del dormiveglia in cui le percezioni fisiche, via via più deboli, suscitavano immagini di avvenimenti confusi; o del sonno, quando erano rappresentati eventi impossibili ma dotati di una loro onirica coesione.

Anche in quel momento venne colto dal dormiveglia; la realtà, posto che quel mare fosse reale, fu sostituita da una rapida sequenza di scene. La coerenza era data dall’origine delle visioni perché tutte sgorgate dalla sua memoria.

 

Era su un lettino. Qualche adulto sconosciuto lo sovrastava.  Egli sapeva chi fosse perché l'avrebbe rivisto negli anni, ma in quel momento rappresentava solo uno dei tanti fenomeni nuovi del mondo ancora inesplorato, parte dell'immediato darsi dell'esperienza di un bimbo. Accolse dunque la strana sensazione di una massa che modificava l'illuminazione della stanza, mentre un oggetto colorato veniva poggiato davanti a lui. Egli allungò maldestra una manina paffuta; in un lampo si riconobbe, ricostruì le molte varianti di quella mano e infinite strade si aprirono nei suoi ricordi; la continuità dei fenomeni lo richiamò a quel regalo, riportandogli la percezione della sua consistenza, la lucidità di certe parti, catalogata come la sensazione nuova del giorno, e l'apparizione di un altro oggetto, misteriosa come era consuetudine in quell'inizio di esistenza. Nel tentativo di raggiungerlo, sbatté da parte ciò che ancora stava in mano. Egli fu conscio, in qualche modo, di un rotolare imprevisto (avrebbe imparato più tardi a prevedere il comportamento degli oggetti) che però non curò, attratto dalla novità. Fece i gesti che sapeva rappresentavano una richiesta e gli fu porto un contenitore, il cui colore apparve di colpo troppo scialbo, il cui vuoto interno aveva già imparato a riconoscere come privo di interesse e si lasciò andare sulla schiena, immemore del regalo di poco prima.

Egli seppe, contemporaneamente, di avere percepito la perdita di un dono troppo presto scomparso dal suo panorama, e la delusione della persona che l'aveva portato. Aveva anche sentito, confusamente, di dovere una riparazione adeguata all'apparente disinteresse; troppo poca la padronanza e breve il ricordo, avrebbe nondimeno stimolato certe delicatezze future.

 

Gli riapparve la zattera, ancora si sentì umido e appesantito e vide, proprio davanti a sé, un giocattolino che non riconobbe.

Subito lo sguardo ricadde nel buco nero del sacco. Cercò di resistere all'impulso di precipitarvisi dentro per avere compreso che lì, in nuova prospettiva, gli si offriva un'occasione di ritorno; ma aveva capito pure di potercisi perdere. Il moto con cui, nel mondo che conosceva, si sarebbe dovuto avvicinare all'imboccatura, lo catapultò disordinatamente in un affastellarsi di concetti, più che ricordi, richiami l'uno dell'altro secondo meccanismi che sentiva di avere intuito senza mai convenirvi. Trovò, tentacolante, un che di tozzo: la sua nuova auto!

Riconobbe l'esultanza della conquista, non la prima però certo importante per come gli giungeva, e quando. Riconobbe, senza mai averne avuto cognizione, le molte linee di pensiero che convergevano sul suo possesso; si vergognò, per avere trasformato un oggetto di motivato vanto in uno specchio ustorio. Poiché, nel mondo che chiamava reale, la sua proprietà non aveva simili capacità ignifere, s'era egli fatto tramite del bruciare: piccole manie, litigi con chi s'azzardava a comportarsi, nel sacrario, difformemente dalla ritualità da lui stabilita. Provò imbarazzo per la reazione scomposta al masticar di cicca d'una passeggera; al troppo precipitoso aprir d'una portiera, come se entrarvi dovesse farvisi con gestualità opportuna. Un lampo di luce si dipartì dalle ruote e lo condusse ad una gita d'anni prima, a lui che, unico, s'era preoccupato del cavatappi. Nel nucleo, egli era divenuto l'orgoglio. Ne sentì la forza calorosa e comprese il modo in cui aveva bruciato le tappe di una carriera che non gli aveva lasciato altro che cenere, una fra le ramificazioni interrotte nel suo lavoro.

Fu richiamato all'ordine da un subitaneo scossone. La zattera si stava ribaltando sotto il peso di una massa enorme: un cavatappi; no, un parallelepipedo; no, il ricordo di un'auto, ma gigantesca. Seppe di doversene liberare, o sarebbe sprofondato. Agitò la mano libera come a scacciar mosche, cercò di gridare come per allontanare un cane, inadeguato ogni gesto: era un animale, ma torpido; la sua pesantezza era riflesso di una mente ottenebrata. Dell'animale e sua. Capì che l'animale era lui, in una delle sue molte incarnazioni in quella vita. Dal corpo cominciò a fluire un liquido chiaro che sembrò incendiare il legno umido dell'imbarcazione. Ne aveva voluto fare un incendio ed ora, finalmente, ci stava riuscendo. Ebbe una crisi di panico, soffiò a guance piene, come a spegner le candeline della torta che non aveva gradito: dal mattino con quel malessere inspiegabile; un umore nero, immotivato agli occhi dei grandi, gli aveva tolto parecchie opportunità, quel giorno, e lo seppe, come si ricordò di non averlo saputo allora. Soffiare sulla torta in quel modo disordinato! Le candeline divenute piccoli razzi, lo ricordava bene: quelli che, anni dopo, avrebbero dovuto portarlo in Giappone se ne partivano senza di lui, e la nuvola di sua zia s'allontanava colla promessa di un film mai visto. Era tutto successo allora, capì bene, ma non se n'era accorto.

La massa faceva pendere la zattera. Di buono c'era che il liquido infiammato stava colando in mare, scendeva in una stalattite filiforme che sembrava coagularsi, man mano che s'inabissava. Immaginò la colonna farsi sostegno a reggere tutto ma così non fece, la zattera si piegava troppo ed egli si trovava sul lato sempre più sott'acqua. Si agitò, scosse i legni, ringhiò.

Avvenne lo scatto. Quando, finalmente, guardò la mole con distacco. Non capì. Solo allungò una mano ("come posso reggermi, con tutto il peso, se non mi tengo?"), l'aprì sull'auto e intorno ad essa la chiuse. Sentì che in mano non aveva nulla e la zattera gongolò, sulle piccole onde d'un mare illuminato di primavera.

 

Il sollievo fu breve. Sentiva ancora il sacco, i lacci cominciavano a farsi dolorosi. Frugò un'altra volta, deciso a liberarsi d'ogni cosa.

Con le dita si stava carezzando la tempia; un gesto smascherato da sua moglie, tra il serio e il faceto, fin dalla prima volta che glielo vide fare. Aveva sempre capito tutto, di lui. Egli sedette, quel divano tanto comodo l'accoglieva, e iniziò una conversazione, un monologo, una confessione.

Lei l'aveva conquistato capendo chi era. Sarebbe rimasto per sempre un mistero, pensò, il motivo per cui aveva voluto legarsi a lui, dal momento che non le sapeva nascondere i suoi difetti.

Cominciò con quelli: fu una dolorosa sequenza di incomprensioni, delusioni, fastidi. Niente che potesse sconvolgere; non certo sua moglie, con una motivazione che le aveva fatto accettare quel futuro. Cercò qualcosa da prendere, ma si ritrovò ad agitare il mestolo in un pentolone di brodo leggero, cercando un tortellino. Rimestare era la punizione: aveva talmente lasciato correre, tutto si aggiusterà, poi passa... era passato il tempo senza risoluzione. Cercava di sciogliere qualcosa, chiarire un gesto.

Sarebbe stato poi gran fastidio, quella sera, spiegare che gli importava, volendo solo che la faccenda scorresse senza intralci? Era sembrato non curarsi di lei, di quel che diceva, del suo colore preferito di cui altri la privavano, mentre l'intenzione era di incoraggiarla, ché ne avrebbe avuto a consolazione; un sorriso di sostegno, troppo simile a una smorfia di derisione.

Quanti gesti, di quel tipo? Si affidò alla clemenza della corte, ricorse in appello: non gli aveva da subito capito quel gesto? Non avrebbe egli lecitamente potuto supporre che capisse gli altri? Si confortò così, ma intanto il brodo era caldo, il caffè saliva e la ristrutturazione veniva su bene, certo, ma non come previsto. Si carezzò una tempia e passò all'azione: prese il bordo del sacco e lo scosse, ne ribollì il contenuto e vennero a galla concrezioni riconoscibilissime.

 

Aprì le braccia per accogliere, con uno strano entusiasmo, le sue disonestà. Finalmente! Tanto se n'era fatto scrupolo, ora s'abbandonava al piacere di complimentarsi con sé stesso per avere saputo escogitare, spesso all'impronta, trucchi interessanti. Scoppiettavano davanti a lui, ciascuno a brillar lietamente della propria originalità. Appeso ad ogni bolla, un sacchetto di vittime, ciascuno avendo bollicine al seguito, essi pure autori di inganni... come c'erano entrate, nel suo sacco?... e al di sotto le molte vittime...  e le loro bolle, là in fondo... Un suono di molte voci cominciò a sgorgare, risa e brontolii, perorazioni e querimonie, accuse e scuse. Gli venne da ridere per l'affannarsi dietro alla commedia: erano tutti, si disse, consapevoli di recitare, accettavano il rischio per la speranza di essere l'imbonitore e non l'imbonito. Gli spiacque, avere speso tante energie così: cogli amici, i parenti, i clienti e i fornitori. Con tribunali che tanto disprezzava quanto gli erano stati utili.

Tirar fuori la catenella frizzante fu laborioso, dolente. Gli toccò espandere il tempo, distrarsi per mille biforcazioni, dove lo portavano le incrociate tattiche di tutti i partecipanti a quel gioco insulso e tutto sommato riprovevole. Per molte vie ebbe paura ad inoltrarsi, tranciò di netto le catenine le quali, benché contenute nel sacco, se ne scivolarono giù per l'oscurità, ma quando tentò con altre gli si spuntarono le forbici, si scheggiarono i denti, si sfaldarono le unghie e fu costretto a caricarle completamente. Le gettò tutte giù nell'abisso e per un poco rimase ipnotizzato a guardarle scendere: rimpicciolivano ma restavano visibili, l'acqua così trasparente, e sentì paura nel contemplare i movimenti sinuosi che sembravano invitarlo.

Fu aspirato in un ambiente strano, dalle molte ricurve pareti. Conteneva la maggior parte della sua vita, sparsa in quadretti autonomi, confluiti l'uno nell'altro. Di ciascuno dovette dar conto alla figura, di fianco a lui seduta, che non giudicava ma gli si poneva, ogni volta, come una domanda o un'obiezione non prevista. E lui, ogni volta, scopriva il quadretto essere vuoto; le figure si sbriciolavano appena le prendeva in considerazione, spesso con un fiammettio sospetto, quasi foss'egli catalizzatore e quindi, come questo, sentì un venir meno di sé ad ogni incontro.

 

"Questo divano va cambiato." disse alla donna in piedi sulla porta, con un recalcitrante bambino in braccio.

"Se non ti ci buttassi a peso morto, mio caro, sarebbe meglio."

Aveva ragione, accidenti, e non osò replicare. L'opinione dei figli: che il bimbo non percepisse un elemento criticabile in lui; se avesse detto qualcosa, l'episodio non sarebbe scivolato nel limbo, fra una lagna e una materna esortazione; si sarebbe condensato in caso esemplare: "la madre rimprovera il padre", con indicibile danno.

Aveva deciso di sedersi con attenzione ma non tenne mai fede al proposito. Un culone beffardo lo colpì in volto, all'improvviso.  Era stato manesco una volta; l'adolescenza l'aveva sorpreso con una crescita che egli, per almeno quindici mesi, non aveva saputo fronteggiare; non sapeva dire una battuta al tempo giusto.

Si ritrovò nel teatro del suo quartiere; sua moglie gli tendeva dei fogli sgocciolanti che recitavano malamente l'unica poesia che avesse mai imparato, fuori di scuola.

Il figlio maggiore. Lui sì che aveva la stoffa dell'attore, con una personale enfasi esibita in occasioni d'ogni genere, alcune importanti e altre no. Ricordò un suo pianto infantile, con dei singhiozzi palesemente artefatti nei quali sembrava compiacersi.

Non credeva nella capacità di giudizio del figlio; il corso scelto lo avrebbe introdotto ad una linea di professioni inadatta alle sue vere inclinazioni, ma ci si voleva dedicare col solito modo convoluto di ragionare. Quanto più suo figlio argomentava, con quel fare creativo ma opinabile, tanto più egli batteva e ribatteva le sue convinzioni. Egli aveva fatto pressioni per un tempo maggiore dell'opportuno, intensità maggiore del dovuto; se ne rendeva conto ma era stato più forte di lui.

Anch'egli recitante. Si ritrovò nel teatro, sua moglie che premeva, una contro l'altra, due marionette identiche, una però coi vestiti stracciati e l'altra d'un legno lucido e odoroso. Gli era sempre piaciuto il profumo che suo zio, per decenni, gli aveva regalato. Quando passava a trovarli, faceva quel gesto, un arco, a porgere i regalini.

Così aveva studiato coscienziosamente una poesia e l'aveva declamata, a beneficio dei figli, per dare una prova di quella linea che li faceva simili a lui, e allo zio, fino ad una specie di mitologia dell'inconscio: una faccia che, nel ricordo, gli si era connotata inquietante nel mistero della sua identità, di una posizione cerimoniosa, della scarna ambientazione da sempre associata alla scena; poche cose: la cornice di una porta, fiori su una camicia, un mobiletto treppiede contro il muro di un corridoio e, mai capita, la presenza di un sacco all'ingresso, semifloscio, in attesa di partire o appena giunto.

 

Lo svegliò il soffio proveniente dalla bocca di molte maschere pallide, in una serie immensa. Le stesse tornavano, mutate, negli anni; alcune a rappresentare il medesimo personaggio e altre usate, con esiti difformi, da molti attori. Ne abbrancò una, poi un'altra. Ognuna iniziò con lui il dialogo interrotto a suo tempo.

Da un compagno di classe riottenne le figurine scambiate; ne aveva guadagnato una bottiglia di alluminio ma, tornando a casa, era stato scontento. Ebbe un numero di baci e carezze superiore, dicendo frasi che al tempo giusto non aveva trovato. Revisionò i termini di un contratto particolarmente vantaggioso e la maschera gli sbuffò una quantità di beni, prodotti di elettronica quell'anno ricercatissimi.

Dopo un tempo egualmente breve ed eterno, la processione ricominciò ma in un altro colore e allora si parlò di tutt'altro: amicizie mai decollate, altre inutilmente inseguite, soprattutto per interesse. Si scoprì povero di contenuti e la maggior parte degli attori ruppe le righe e sprofondò.

Fecero, le contraffatte figure superstiti, un altro passaggio in ancora diverso colore. Ma soprattutto erano quale senza denti, quale senz'occhi, quale deforme: enumerazione d'ogni possibile attacco ad un sembiante; evidenza di sé colpiti o vilipesi o impoveriti; effetto di qualche suo arricchimento indebito, sopruso non evitato, bisogno non soccorso. Le salutò infine, con rimpianto. In mano gli restò una coperta sporca di sangue: gli era piombata addosso una povera vittima d'incidente; egli, in preda al panico, s'era mosso da eroe, l'aveva consolata e trasportata, qualcuno l'aveva filmato ed era stato oggetto di plauso televisivo. Poco era stato il dialogo: occhi puntati a lui nel lamento, in quel pallore incorniciato; paroline come a bimba spaventata. Si difese, contro l'evidenza del suo egoismo, agitando il fagotto.

Ogni cosa purgata, riprese come nulla fosse. Molte vite ebbe egli trascorso quando infine, stanco, si lasciò ricadere sul divano, accanto a sua moglie che sembrava non preoccuparsi, nulla sapendo. Dei due, la più brava a mentire. La guardò mentre con competenza soppesava episodi e oggetti.

 

Si rese conto di aver tenuto troppo a lungo la faccia sott'acqua. Ne uscì con un gemito che lo spaventò. Si liberò di quel che teneva in mano gettandolo sulla zattera. Sembravano marionette, mai viste ma dall'aria familiare, e figurine e membra morbide e una vecchia radio a galena e altri dispositivi arcaici ed inservibili. Tossendo, mentre gli occhi lacrimavano, prese a casaccio dal sacco e buttò a bordo. Prese di quel che arrivava, così accecato e furiosamente; sentì, senza curarsene, rumor di fragilità infrante e di ferraglia, profumi di qualche fiore, fruscìo di carte.

Quando, infine, riprese fiato, le ultime gocce sputate fuori, la vista recuperata, le braccia indolenzite: quella che lo reggeva e l'altra con cui aveva pescato, poggiò il mento sulla zattera e guardò la catasta. Gli sembrò impossibile avere ammucchiato una simile raccolta di oggetti, alcuni molto grossi.

Di fronte a sé, il venticello di un altro mondo scuoteva un biglietto, infilato fra un altro giocattolo, una specie di castello fatato, e una cassettiera. Su questa passò la mano, cercando di asciugarsela, per prenderlo, e il suo cuore ebbe un tuffo.

S'erano interposte divagazioni a non finire, prima di avere i biglietti in un certo tempo della vita. Li aveva ritrovati con piacere più volte, negli anni, ogni qualvolta i cassetti andavano sistemati: li aveva guardati con soddisfazione, complimentandosi per tenacia, fortuna nell'avversità, e il modo di affrontare ogni contrattempo con l'olimpica serenità, capace di stupir tutti, mai avuta in precedenza e divenuta da allora sua proverbiale connotazione. I figli ne ridevano, così egli credeva: nulla avrebbe potuto agitarlo giacché di nulla gl'importava, questa l'interpretazione. E invece era stata la sua grande scoperta, di opporre imperturbabile a inamovibile, onde quest'ultimo smuovere; una specie di superstizione che però funzionava, come sempre accade nell'opinione dei superstiziosi. Quei biglietti periodicamente ritrovati erano il diploma cui teneva; tanto maggiore lo sconcerto quando, al tramonto, dell'ennesimo repulisti s'era occupata una figlia la quale, ignara degli ordini d'importanza, trattenne o buttò secondo criteri suoi. Aveva poi egli riveduto l'archivio oramai estraneo, ridotto a puro deposito, e anche allora s'era portato colla solita quiete, ch'era sembrata assenso.

Ora l'aveva nuovamente, l'attestazione previa di quanto il viaggio sarebbe stato gratificante. Come se anche quella volta la placidità avesse vinto l'avverso. Lo estrasse perciò lentamente, e nel farlo riconobbe anche il castello giocattolo.

L'aspettativa sempre tradita, il porgere mai abbastanza colmo dei suoi significati, un oggetto come il testimone di due diverse comprensioni: una, la propria, nota; l'altra sempre sfuggente, fiaccola che nella notte indica, vagamente e a tratti, la direzione in cui si muovono i pensieri altrui. Come, avvicinandosi al bivacco, scoprire la comitiva già partita per altre destinazioni, senza preavviso. Il giocattolo divenne presenza costante silenziosa, superò indenne i maltrattamenti degli anni finché scomparve, come spesso gli erano scomparsi sotto il naso gli oggetti di casa, essendo altrui la gestione. Agitò la testa, pentito, a recuperar dimenticati aspetti della stanza: una cucina, poi un'altra, una camera con un letto che poi divenne un altro e non seppe ricordare quando. Agitò gli occhi, ché vedessero ciò che la sua memoria non poteva offrirgli. Anche rivide sua moglie dirgli qualcosa, ma la voce era trasformata in uno scricchiolio e le parole mancavano; era lì l'avvenimento del giocattolo ma senza quelle informazioni non avrebbe saputo restituirlo alla bimba, poi figlia ordinatrice, per la quale rivestiva un ruolo iconico che egli mai aveva immaginato.

Quanto s'era perso, di sé e degli altri! Glien'era venuto, lì sott'acqua, un sommario in forma di presepi facili alla combustione, poi di scene dettagliate, a presentargli tutto.

 

Spuntò all'aria con un impeto che il peso non avrebbe dovuto permettere, ansimò nuovamente, scuotendosi come fanno i cani bagnati, e frugò nel primo cassetto.

Sua mamma tirava fuori un lenzuolo con arte, ogni volta. Era diverso il gesto, quando si voltava con una pentola o una fotografia o un martello. I letti godevano di statuto autonomo. Lasciò che lei rincalzasse bene, egli arreso alla febbre, benché così ristretto sentisse di perdere la capacità di agire. Aveva permesso ai sogni d'invadere il suo spazio diurno, commentandoli con divertimento di lei, che gli passava una mano di sbieco, come a mancar la mira della fronte per poi giungere all'orecchio, regolarmente stropicciato. Solo in quell'occasione non diede la solita reazione, di allontanarsi per abitudine ma senza fastidio; aveva chiuso gli occhi davanti al sorriso, questo s'era allargato ad aprire un sipario di sogni che non ricordava.

Ricordò un libro, invece. Si vide trasformarsi mentre lo leggeva e prendere agevolmente, mediante l'aiuto, la forma che gli era propria e ancora non aveva. Era come un sollievo, diventar sé stesso. All'opposto, patì il peso di poche ma decisive opportunità svaporate. Una fiamma sempre sul punto di spegnersi, mai sufficientemente alimentata; la pigra ricerca di combustibile; sabbia gettata sopra a togliere l'aria e soffocarla.

Vide una collezione di scelte, le mise in ordine sull'album e proclamò conclusa la raccolta, ricevette i punti premio e si godette una soddisfazione, là in classe, scordata da tempo.

Enumerò i suoi respiri, chiodini su cui era dipanato il suo vivere. Riconobbe le persone importanti, una ad una ma mischiate, come fossero le tante facce di una sola esistenza.

Sua moglie ripose l'album, dopo avervi aggiunto un autografo.

 

Guardò nel sacco, ormai quasi vuoto. Esaminando la rimanenza, ritenne che il poco restato fosse, anzi dovesse essere abbastanza leggero; cominciò dunque a tirare convinto, intenzionato a sfruttare lo spazio sul barcone, sufficientemente ampio per ospitare il sacco intero.

Quale la sua sorpresa, sentendolo gravargli più di prima! Dopo molti inutili sforzi, ansimante e disperato, si rassegnò a cercare se non potesse rinunciare a qualcosa. Fu difficile. Lo spazio disponibile si riempì di ogni oggetto in rassegna.

Un pallone. Una camicia. Una fotografia. Una pipa. I suoi capelli. Il ricordo di un fine settimana. I capelli di sua moglie. Un figlio. Un altro. Una figlia. Un'altra. L'unico rasoio che l'avesse mai soddisfatto. Un computer.

Un libro, sopravvissuto di antiche collezioni, ma quello no, aveva deciso di tenerlo. Che era mai, un solo libro? Lo prese e delicatamente lo pose sui legni, i segni di molte letture lo accolsero lieti. Pensieri cheti giunti nel leggerlo. Punti sottolineati, di alcuni ogni ragione persa. La tersa chiarezza delle idee, fra demoni e dee capaci d'ogni potere, rapaci cogli umani, vani negli intenti. L'esattezza dei conti, privi d'ogni errore. Ogni eroe della scienza in parata, varata un'era nuova. Giova al cuore e all'intelletto, lettura simile, come rinunciarvi?

 

La zattera stava quasi affondando, sotto la quantità accatastata; doveva urgentemente sbarazzarsi di quante più cose possibile. Iniziò con la cassettiera che finì fuori bordo. Essa col suo contenuto originario, finalmente ritrovato ma infine indifferente.

Col gesto oramai noto, della volontà prima che fisico, sparirono gli orgogliosi biglietti, le fate nel castello, gli affari scrupolosamente raccolti, e infine l'irrinunciabile, un pezzo alla volta, un singulto ogni volta. Rimase, piangente, a contemplar la zattera desolantemente vuota. Restava un giocattolo, con una levetta invitante; lo prese e finalmente se ne poté dilettare, a lungo felice. Quando ne fu sazio, lo poggiò sulle assi e il contatto fece uno scricchiolio, come di chi sposti una sedia. Guardò la sedia piccolissima in mezzo al nulla, provando inesplicata commozione.

Sentì, all'improvviso, come un sollievo; mancava la trazione dei lacci che l'imprigionavano. Guardò il suo corpo e si trovò libero; giusto un gozzo di stoffa, ormai vuoto, quasi non più legato. Sollevò, timoroso, l'ormai lieve zavorra, mentre i nodi prima irrisolvibili si disfacevano, uno ad uno, silenziosamente.

Tutto era silenzio, nel suo discendere, quasi medusa morta.

 

La futilità d'ogni cosa! L'unica certezza, pensò, era il mare senza fine sotto di lui. Si abbandonò all'idea di scendervi, sentì il progressivo raffreddarsi dell'acqua, svanì ogni luce, finché giunse allo zero termico e al nulla cosmico. Eppure non finiva: da un'altra profondità risaliva un nulla ancor maggiore. Quando esso spalancò le fauci, egli vi rigettò impotente le generazioni precedenti, le storie antiche appena orecchiate, le arcaicità svanite, piccole tracce trasfuse in lui. Ma insieme i riferimenti, i punti d'appoggio alla costruzione dei suoi giorni, le sue incarnazioni che di tempo in tempo l'avevano reso diverso da lui stesso, le diverse contemporaneità. E infine eruppero dalla sua coscienza le molteplici nascite, le novità ricevute via via, persone e cose su cui, canuto e debole, avrebbe voluto innestar quanto più possibile di sé, per continuare a vivere.

 

Si ritrovò in piedi sulla zattera, completamente asciutto. Un sole troppo forte lo faceva bruciare; egli lo guardò direttamente, riconoscendolo. I suoi raggi incendiavano un tramonto glorioso, infiammavano la superficie dell'acqua, la zattera e il suo stesso corpo; facevano ardere le cime degli alberi d'un'isola in avvicinamento.

Per un istante, accecato da faville danzanti, ebbe la visione d'un'anziana, seduta accanto al suo letto.

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