top of page

Il giudizio universale

Il cielo di piombo sembra non esistere, nessun orizzonte a segnarne il distacco dalla terra, altrettanto dura. Non c'è traccia di mare a disegnare coste, in un paesaggio uniforme, per una distesa inimmaginabile.
Sono tutti là, perplessi, qualcuno a fatica inghiottendo un ultimo boccone, chi a sprecare una lacrima ancora, chi a gridare il resto di un "no" a quanto invece s'è, millenni prima, compiuto.
Il rumore, nei primi istanti prodotto dal residuo di vita in ciascuno, portando laggiù i resti di problematiche consunte, prende una forma, mentre la maggior parte dei presenti acquista consapevolezza del luogo in cui sta, e della compagnia trovata. Ci sono figli perduti, nuovamente fra braccia pronte a dare carezze nuove, figli gettati che ritornano addosso a genitori scalcianti; vittime riunite assieme intorno a carnefici morti decenni dopo; parenti che hanno avuto il tempo di dimenticarsi, colleghi in lavori terminati da tempo, nemici fra cui l'intensità dello scontro ha tessuto un legame eterno.
Ci sono gridi, pianti, sorrisi e abbracci, a ritrovare quel che la morte sembrava avere inghiottito; terrore e sconforto a ritrovare quanto, almeno con la morte, se ne sarebbe dovuto andare.
Il chiasso cresce, con storie ad intrecciarsi e portare aggiornamenti ad altre storie; si fanno presentazioni di bisnipoti incartapecoriti a bisnonni ancor giovani per la contentezza di genitori e figli che vogliono, ammucchiando evidenze, riallacciare le perdute intimità; si riprendono liti dimenticate da decenni o interrotte bruscamente un istante prima. Qualcuno accerta il fallimento delle sue postume speranze, altri scopre esiti felici che non osava immaginare. Infine, però, prevale lo sgomento.
Stanno, tutti quanti, a contemplare le non rimarginate ferite di mani e piedi e costati e anime, in sé e negli altri. Stanno accanto a genti note, dalle sofferenze improvvisamente scoperte e non rimesse. Portano i segni di ogni affanno che mai abbia loro tolto il fiato, il sonno, la quiete. È il ricordo di un dolore, attutito come lo strano mondo privo di contorni che li accoglie.
Ma ci sono i dementi, gli alcolizzati, i pazzi; molti più si ritrovano dementi, ebbri o folli a causa dell'esperienza. E la folla immensa, quale mai calcò il vecchio suolo, ondeggia e si scuote, s'infrange contro se stessa, unico ostacolo al proprio moto; genti travolgono genti e sono travolte, la paura prevale su ogni altro sentimento e commento mentre l'enorme popolo capisce, tutto insieme, l'enorme mistero in cui è precipitato. Non c'è violenza solo perché è chiaro, da subito, che non servirà più.

Non ci sono che morti. Ognuno di loro sta circondato da morti, morto esso stesso agli occhi di sconosciuti aventi una completa conoscenza postuma di tale persona, ogni persona che ha un ricordo completo, immodificabile e impietoso, di ogni istante sperperato. Sgomento, vergogna, stanchezza, e ogni segreto ricordo condiviso, stante la precisione che nessun ricordo aveva mai posseduto in vita, tanto da aver distesi in faccia alla folla fino i più semplici moti.
Ogni cosa rivista, ogni cosa riscoperta. È bensì la propria esistenza, ma con altri occhi, con un senno di poi non creduto possibile. Un vivere arricchito da una sovrumana conoscenza di sé, come al mondo nessuno aveva avuto. E tutti sanno: tutto, in un modo e nell'altro.

Ma dopo, in quell'esserci senza un vero scorrere di tempo, si avvera il conto delle perdite, perché non c'è, in quella sterminata pianura, l'intera umanità: ne manca una parte inattesa. Madri e padri e figli, amici e nemici, clienti e venditori, trovano buchi inspiegabili nella fitta rete di relazioni che li avvolge; un compagno di giochi, non particolarmente caro o antipatico, lascia di sé un vuoto di frammezzo ai piedi di altri, quasi dimenticati ma invece presenti; in una serie di persone, consecutive incarnazioni di una medesima compulsione a soffrire, è lo spazio non occupato dalla faccia qualunque di chi aveva, sé nonostante, svolto lo stesso ruolo degli altri nella fila, dall'imberbe amante, possessivo e sognatore, al rugoso ma affascinante ultimo deluditore, di sé compiaciuto a recitare parti da conquista essendo soltanto il porto inadeguato al riposo di una vecchia nave. Mancano il non meno buono, il non meno onesto, il non meno devoto o meno impegnato; manca una sorella forse problematica ma sincera; manca il passante che aveva attratto, chissà perché, uno sguardo, e impresso un ricordo.
Mancano, certo, alcuni esagitati demonofili, ma altri rimangono; sterminatori dal nome universalmente vituperato, ma il pericoloso squadrare di alcuni permane, come a prendere ancora la mira; suicidi per tedio, inerzia o giovanile spleen, ma noie apparentemente simili si vedono in giro.
Il senso della mancanza diventa chiaro, e la mancanza è definita giusta benché terribile dall'istintiva adesione al giusto in tutti i rimanenti. È la seconda morte a cui nessuno credeva.

Si dà così a vedere, nell'inaspettata sussistenza, l'ubiquo posizionamento di ciascuno, su molte dimensioni attelaiato a riannodare, col peso conseguente, ogni mai realizzata costellazione di affetti, odi o semplici prossimità, dimodoché ogni ricordo trova la sua spaziale realizzazione come i corpi stessi realizzano, in strane difformità, le peculiari distorsioni d'ogni carattere o azione.
Non propriamente corpi umani, quelli della distesa, ma idee di umano, o di quanto umanamente realizzabile, somigliante o meno ad umanità, e tutti riconoscono, in quel formarsi di nuove figure, la conseguenza fedele e l'epifania del modo di essere di chi se ne ritrova portatore. Molti ne godono, un poco, e molti ne atterriscono, costretti a riconoscere ciò che diventavano senza rendersene conto, o che si erano sempre negati. Altri sono identici a sé stessi, imperturbabilmente dimessi e senza fantasia risagomati su consunte abitudini: incapaci di nulla che non gli piova addosso. E nell'esser diventati se stessi, portano il segno riconoscibile di luoghi e alberi, nuvole sassi e muri, castelli e fotografie, animali e sogni, piccoli gioielli e bigliettini fugaci; di qualsiasi concetto abbia mai toccato l'esperienza di un umano.

Viene un angelo, uno solo, senza suono di trombe e con poca luce, posizionato di fronte a ciascuno, centro di tutti gli irraggiamenti, e parla con voce udita dai sordi, si mostra ai ciechi, è presente a chi mai ebbe, vivente, cognizione di presenza tranne i propri sogni, sogno esso pure. È l'angelo guida di ogni agire, l'angelo dei significati di ogni comunione, l'angelo cui tendeva ogni pargola mano prima d'esser cresciuto, distratto oppure morto.
Un altro tempo è necessario, di quel non-tempo ormai capito, perché le prime parole si presentino agli astanti.
"Siete al coronamento della creazione, ora vedete il compiersi di promesse e minacce. Non c'è più lacrima su volto, non più sospiro; tutto è ritrovato, ogni legame ripreso. In voi vedete realizzato il segno delle vostre vite, ognuno coglie i frutti della passione primaria, e di ogni speranza vedete il destino."
Tutto vero. Ma dove la gloria, dove la beatitudine? E, se ogni lacrima effettivamente è asciugata, e nessuno vuole spargere altrove, si può, quel nulla restante, chiamare consolazione?
"Quanto avete saputo sognare, s'è avverato; quanto avete creduto, si mostra. Non troverete qui se non umano e umanamente sperato."
Certo, nulla di inumano è potuto sopravvivere con sollievo di chi, fino a un attimo prima, di inumani dolori si lamentava. Ma quell'umanità trasformata, quella comunione inattesa, quel che sono diventati, è tutto?
"Dico: quanto creduto. Quel che non s'è creduto, manca. Vi fu mandato un segno, vi fu data notizia; profezie furono spese, esortazioni lanciate, ma nei secoli non accoglieste che in parte. Avete atteso miracoli, senza capire che avreste voi dovuto farne. Nondimeno, quella parte assomiglia all'annunzio. Guardatevi intorno: non troverete mancanza di quanto rivelato. In qualcuno più di altri, il richiamo ha trovato terreno."
Sembra ineccepibile, la difesa non richiesta a possibile accusa di manchevolezza. Ma ognuno patisce non solamente la realizzazione parziale, ma pure la totale aderenza di sé a sé medesimo, incapace di uscirne, anzi per l'eternità prigioniero dei propri risultati. Un verdetto implacabile avrebbe dovuto fare di loro altri esseri, ma ne fa solo delle curiosità deformi.
L'angelo non conclude il discorso, né può: le sue parole sono evidenti nell'esperienza collettiva, nel panorama squallido di utopie non perseguite e scetticismi mortiferi. Scompare senza clamore, non rimpianto. Nulla da imparare, nulla più da scoprire, che non sia reso evidente alla complessiva comprensione.

Si vedono piccole perle incomplete, bellissime, in vite di menti eccelse mai uscite dal bozzolo delle costrizioni di ingiuste leggi o ingiusta natura. Si ammirano, in lontananza, spiriti possenti restare ancorati a terra, a malincuore trattenutivi per la vacuità del cielo senza nuvole e senza prospettiva. Qualcuno offre il raccolto di una vita faticosa, spesa in impercettibili lamenti, a fare quanto poteva. Si scambiano tutti gli affetti, si godono collettivamente i gioiosi legami, si condivide ogni ideale quasi avesse ancora un oggetto, si ride di ogni segreto, ora pateticamente esposto. Infine si cerca di ignorare, senza riuscirvi, tutto il male compiuto per debolezza o paura. Si ha la chiara visione di ciò che ognuno poteva essere, e la distanza con quanto avvenuto fa stringere i cuori. Molti presenti confrontano, con una chiarezza che in vita non si dava, le proprie povertà con le ricchezze altrui, di cui pochi fecero buon uso, tanto più suonando offensivo lo spreco di beni e bellezza e capacità. Troppe esistenze, invece, non potendo apprendere per la brevità del vissuto, non sanno anche qui nulla contemplare, perché tutto doveva succedere e divenire nel mondo. Una profonda compassione di sé abbraccia l'intera umanità.

Qualche timido tentativo di inni s'infrange, esaurita la speranza che li compose: di che sperare oltre l'aldilà? Da più parti si vedono accese le luci di una privata beatitudine; altrove sprofonda l'abisso di una nera disperazione. La maggior parte altro non sa che sgranare parvenze d'occhi ad una multiforme umanità, la cui esistenza ha sparso calore quanto ogni stella mai apparsa, le cui gesta hanno fatto rintronare un universo ormai spento. Eppure, la varietà non sa riempire il gran vuoto di un mondo nuovo, preparato per farsi riempire ben altrimenti: è, quel grigio, il risultato del tiepido vivere della maggioranza, mai abbastanza sollevata dalle anime grandi e fortunate, mai del tutto contorta nelle brutture. Mai, per l'eternità, sollevata al di sopra della propria debolezza, al modo in cui funzionava il mondo precedente.
Su tutto prevale il silenzio, niente da commentare, e resta un immenso quadro di inerti statue inebetite dalla visione, punteggiato dai ripetitivi sussulti di qualche bimba, vissuta troppi decenni, ai secoli dei secoli non potendo offrire che una tetraparesi spastica. Perché niente ci viene risparmiato.

bottom of page