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Il buio

Io lo vidi. Quella notte, lo vidi.

Si stava cercando riparo, durante un viaggio prolungatosi oltre il previsto. A ripensarci, molte circostanze inattese, che ci portarono a quei luoghi e in quel momento, sembrano avere congiurato per condurci a quel che mi sarebbe accaduto. Come un richiamo o come un destino che ci aveva portati, me per la prima volta, in terre di altra lingua e differenti storie.

Fu così che quel giorno, colti di sorpresa dal buio perché troppo indaffarati a godere la bellezza dei luoghi; e dal temporale non previsto; volendo comunque ribadire l'onnipotenza di cui ci sentiva investiti in quanto giovani, in salute e in gruppo; ci avventurammo perciò lungo una strada che, ci avevano detto, conduceva a un paese dove trovare ospitalità.

Il temporale giunse, repentino, quando eravamo quasi arrivati e l'acqua addosso a noi riuscì solo a renderci più allegri, dato che a duecento metri erano le prime abitazioni illuminate. Ci sembrava che tutto sarebbe andato per il meglio, ma una ventata improvvisa sembrò innalzare una barriera insormontabile: fummo costretti a voltarci per evitare la pioggia di detriti, peraltro non pericolosa, ma così venimmo spinti lontano dai ripari, come una mano che ci avesse raccolti e trasportati. Non so dire quanto durasse, ma al calare del vento le case sembrarono a una distanza desolante, le nuvole essersi abbassate e il buio fattosi quasi insopportabile: stentavamo a vedere le luci, per l'effetto di vento e pioggia.

Nondimeno, riprendemmo a correre, appena ripreso fiato.

Fu allora. Un istante prima di avviarmi cogli altri alzai lo sguardo e un fulmine s'accese da qualche parte. A quella luce, il cielo intero sembrò rivelarmisi in ogni particolare. Subito, testa bassa, ci affrettammo insieme, chiamammo e fummo accolti.

Dentro, una gran pace scese su noi. Sembrò che il turbinare di fuori fosse stato messo a tacere d’imperio. Chi accolse gli stranieri infradiciati ebbe la cortesia semplice che da secoli la gente alla buona riserva alllu viandante, quale che sia il suo cammino. Mi trovai circondato d’una gentilezza speciale, tanto che gli altri mi presero in giro. Sembrò che vedessero in me una condizione da curare in maniera specifica: venivano a me le primizie del pasto, venivano a me i bimbi, a indagarmi con il tipico sguardo profondo dell'innocenza.

Quando apparimmo ristabiliti venne una donna, assai vecchia e abbigliata in modo curioso. Si avvicinò coll'aria di una faccenda importante da sbrigare, mi passò davanti al viso un misto di rametti di erbe varie, disse frasi che non capii e mi mise in mano qualcosa, come un sasso. Sembrò che tutti approvassero, rassicurati.

Poco ricordo di quell’albergo improvvisato; accogliemmo lieti le sistemazioni e il sonno ci travolse.

Nel cuore della notte, però, mi risvegliai inquieto. Un fuoco finiva di lampeggiare discreto in un angolo, una figura a fianco. Mi alzai e vidi l'assorto profilo di uno dei nostri ospiti scrutare i lapilli. Volevo dare corpo agli avvenimenti troppo rapidi della sera prima e, con le poche nozioni mie della sua lingua, e sue della mia, riuscimmo ad imbastire un dialogo.

"Da tempo non avevamo una tempesta così." mi disse.

Io cercavo, nelle scintille, traccia d'un fulmine recente.

"L'ultima volta fu quando morì il capo del villaggio" continuò "dieci anni fa. Era ormai vecchio, tanto vecchio, però restava più forte di tutti. Si diceva che conoscesse la magia, era lui che curava i malati. Ha insegnato lui a sua figlia: le erbe, gli incantesimi. Quando lei è venuta da te, nessuno si è meravigliato. Da giorni stava inquieta e sembrava aspettare."

"La vecchia di stasera? La figlia del vecchio capo? Che mi ha fatto?"

"Non lo so. Di solito spalma unguenti e prega con un disegno, una cosa antica. Ha detto parole mai sentite. Però mi è sembrata soddisfatta. Speriamo."

"Speriamo? Cosa?"

"Che ti abbia guarito. È questo che fa: guarisce la gente."

"Da quali malattie?"

"Tutto quello che può. A volte funziona, a volte no."

"E se non funziona?"

"Il paziente muore." rispose, ma tranquillamente. Sembrò il tono di chi contempli da lontano ogni vicenda, o di chi ne avesse traversate molte.

Il suo volto rischiarato dal resto dei carboni mi apparve come l'unica fonte di luce dell'ambiente. Ne fui attratto come da un ingrediente della cura che mi occorreva, non sapevo a che male. Sentii tornare il sonno e questo è ciò che ricordo: un disordinato ritorno al giaciglio e un'altra oscura frazione di tempo prima del comune risveglio.

L'indomani fummo congedati con molti sorrisi, tante persone radunate a vederci. Oggetto, come il giorno prima, di un interesse particolare, ringraziai imbarazzato e ci avviammo. Solo quando vidi, nella folla, l'uomo della notte mi ricordai dell'oggetto ricevuto. Finsi di prendere qualcosa di tasca e diedi uno sguardo interrogativo. Egli accennò un 'no' e voltò lo sguardo alla vecchia che, vidi, seguiva il corteo dei ragazzini dietro noi. Aveva l'aria tranquilla, di chi fosse lì per caso. Riguardai l'uomo che stavolta accennò un 'sì' fiducioso. La fretta dei miei compagni, la confusione del bagaglio ammassato e della folla al seguito, segnarono il passaggio dalla breve permanenza all'addio.

 

Da quel mattino, il nostro viaggio riprese linearità e ritornammo nei tempi previsti; da quel mattino, un’immagine vista appena si fece spazio in me, occupandomi pian piano la mente. Non compresa subito, si manifestò lentamente per quello che posso solo definire un ORRORE: un buio dotato di vita propria, un’entità, più che un’idea o una condizione. Sulla strada, spesso lo sentii come stesse oscurando una parte di me. Quel cielo, datosi per un istante in una inconcepibile profusione di dettagli, tutti forme dell’unica oscurità totale, mi si era stampato nella memoria.

Fu però dopo il ritorno che cominciai a temere gli effetti della visione. Venni colto da spaventi di un istante, come un qualcosa di sbagliato intorno a me, o piuttosto la percezione di un pericolo da cui guardarmi. Sempre più frequenti, quei sobbalzi assunsero tono mutevole, tanto da stupirmi ogni volta. Spesso, quando ero solo, sentivo la necessità di controllare in giro, non sapendo che cercare. Cominciò quindi a prendermi nei momenti più diversi: mentre stavo lavorando, se mangiavo o passeggiavo. Capitava che stessi leggendo e di colpo avessi la sensazione di un senso diverso che mi sfuggiva: rileggevo ma il significato palese sembrava inadeguato a esprimere un concetto che mi pareva dovesse trovarsi presente, ma era nascosto.

A quei tempi cominciai a tenermi accanto lo strano sasso della vecchia. Credevo si trattasse di un portafortuna, a cui avessero applicato un rito magico: qualcosa, cioè, di assolutamente inutile, di cui però gradivo la vista e il contatto. Aveva un lato piatto e uno curvo, che si adattava al palmo della mano, ma mi venne spontaneo pensare ad esso come un monticello dal fondo piatto; lo poggiavo su un piano e stavo a guardarlo: chissà cos'era. Riuscivo solo a pensare a qualche monumento funebre preistorico, uno di quegli ammassi in cui sono scavate camere funerarie, però non c'era alcun segno intorno che facesse pensare a un ingresso; era una cupoletta senza altra caratteristica. Mi stancavo di guardarlo senza cavarne alcun senso; la sua mancanza di significato mi impediva di associarlo, in un modo qualunque, al mio stato d'animo.

Infine mi colsero i momenti quando ero in compagnia. L’apparenza dei gesti e delle parole sembrava nascondermi un significato inquietante che non sapevo cogliere. Era semplicemente la conseguenza di uno stato di allerta non ben definito, ma mi precipitava addosso un senso di irrealtà.

Mi svegliai una notte che avevo compreso: tutto era insidiato dall’oscurità! Rimasi senza fiato per lo spavento quando osai, solo per un attimo, immedesimarmi nell’abisso, visto senza capire, poi percepito e infine SAPUTO. Un nulla capace di attrarre in sé e annichilire ogni esistenza, un buco nero che tutto poteva annullare. Sentii la spaventosa attrazione chiamarmi a una fine senza speranza: lo scotimento, fisico e mentale, bastò a richiamarmi alla Vita, ma mi trascinai all’alba nello spavento.

Da allora, la notte divenne il mio incubo. Mentre vedevo le ombre allungarsi, mi sembrava che quell'oscurità si appropriasse delle cose per inghiottirle; io sentivo il mondo venir meno e contemporaneamente perdevo fiducia nelle cose, che sembravano apprestarsi a precipitarmi insieme a loro in un baratro infinito; una caduta eterna, niente di diverso dal destino di ogni altra entità: un eterno scomparire, non una morte dopo la quale fosse il nulla, ma un morire eterno dentro l'infinità del niente che tutto chiamava: sentirsi annullare per sempre.

Era la chiamata dell'abisso visto allora; l'aprirsi di un istante, impresso in me.

Il giorno trascorreva senza speranza, contando i minuti che mi separavano dal terrore. Io non me ne resi conto, ma tutti percepirono il mio disagio prima, quindi l'ansia e infine la paura. Ciononostante, riuscii per molto tempo a condurre le mie solite occupazioni: lavoravo come sempre, dovendo alla fine svolgere compiti ripetitivi. Il tempo libero era una collezione di impegni e disbrighi compiuti meccanicamente. L'assenza di una famiglia, per cause indipendenti dalla mia volontà ma molto dalle vicende esterne, mi privava di richiami che avrebbero potuto forse trattenermi alla VERITÀ. Invece, cercai di barcamenarmi con quel disagio, come accoglierlo, un boccone alla volta, illudendomi di poterlo digerire. Si finge di poter venire a patti col male, fare affari con quanto ci priva della luce, della libertà interiore, della rettitudine: ad ogni compromesso ci si illude di avere così salvato ciò che rimane, null'altro che un cadavere, il resto di qualcosa che non è più.

Finivo per notare, anche in uno spazio pieno di sole, l'unico punto che una piega del terreno, un elemento di costruzione mantenevano scuro; da quel punto credevo potesse sgorgare una notte che tutto inglobava.

Mi resi conto allora che il sassolino, ormai un testimone dell'angoscia, non era così semplice come mi era sembrato. Riuscivo effettivamente a rilassarmi, concentrandomi su di esso. In quel modo vidi che la cupola non era né volutamente lucidata, né lasciata grezza: aveva una superficie rugosa,che pareva lavorata apposta, benché non riuscissi a ravvisare schemi comprensibili.

 

Col tempo, tutto sembrò adeguarsi all'idea fattami: la crisi, il progressivo ridursi dei beni al mercato, i sempre più numerosi giovani sfaccendati e scontenti; le misure di un governo sempre meno amato e sempre più obbedito, coloro che ne erano schiacciati, per colpe vere o presunte; il venir meno della solidarietà.

Dei compagni di viaggio, che erano con me quella notte, vicende d'ogni genere dispersero la brigata. Un vento che squassava il mondo pure noi colpì e ciascuno venne forzato a piegarsi lontano dalle strade che aveva sperato di percorrere, chinare il capo vedendo sempre meno, sempre meno vicino alle mete d'un tempo.

 

Ebbi anche il coraggio, dopo molto tempo, di scrutare il nero notturno. Là dove si vedevano nuvole o stelle, io sentivo il vuoto chiamarmi. Aspettavo che da un momento all'altro si aprisse l'occhio infinito del Nulla, a lanciare un nuovo sguardo, ad accorgersi nuovamente di me: era solo questione di tempo. Sentivo la gravità terrestre insufficiente a trattenermi, in quel caso.

Una di quelle sere, però, colsi il curvo profilo del portafortuna, poggiato a me vicino, che rifletteva tanti colori. Non avevo mai notato il fenomeno: la pietra era una concrezione di minuti frammenti che alla luce incerta del cielo notturno brillavano ciascuno di colore differente. Per me, fino a quel momento, si trattava di un sasso nero. Quel nero, però, conteneva un'impressionante quantità di sfumature. Volsi lo sguardo nuovamente al mondo, riuscendo a distrarmi dall'avanzata della paura: nemmeno il cielo era uniforme ma gli occhi, fissandolo, ne traevano forme incomprensibili. Restai un certo tempo, incerto su come interpretare la visione, finché non sentii gravarmi addosso il peso di troppo sentire, troppo vedere, e mi arresi al sonno.

 

Quando la guerra scoppiò, mi sembrò la conseguenza logica della notte in arrivo. Benché avessi scelto la parte che mi sembrava più giusta, ogni azione sgretolava l'esistenza anziché difenderla; presto mi sentii colpevole esattamente come gli sconosciuti a cui sparavo. Ero ormai parte di un meccanismo inumano, correvo alla distruzione fingendo buone ragioni; ma le veglie passate nel timore che un nemico aggredisse ben rassomigliavano a una materializzazione delle paure precedenti, in cui la minaccia era un buio astratto. Pure, non riuscivo a identificare questo con quello, come altri combattenti facevano: non era una lotta contro il buio, ma la profonda natura di questo, di essere guerra e violenza, a manifestarsi, mentre ogni cosa finiva coinvolta.

Il ferimento, l'ospedale, la lunga convalescenza, furono da me accolte come una liberazione: troppe volte il fulmine d'uno sparo mi aveva ricordato il momento in cui l'oscurità s'era spalancata sopra di me.

I ripetuti attacchi di panico s'affievolirono, me convalescente, ma la cosa non mi tranquillizzò: era come se il mio spirito stesse infine uniformandosi al terrore; come se avessi terminato gli anticorpi che in me provocavano la febbre e il rigetto: presto non sarei stato diverso dall'ombra. Me lo confermava l'abitudine alla vista delle ferite, al suono delle urla, alle notizie dei continui disastri.

 

Fu nella notte più buia nella parvenza di ospedale in cui ero ricoverato, insieme a tanti sventurati come me e alle persone che senza quasi sorriso, ma neanche un cedimento, lavoravano per noi.

Era mancata la luce ma un'emergenza reclamava la vista di chi stava agendo. L'improvviso buio mi aveva accecato; prima che gli occhi si abituassero, una lucina fu accesa in fondo allo stanzone e al confronto tutto intorno sembrò ancora meno visibile. Rimasi, senza vedere né chiaro né scuro, ma la differenza mi s'impose alla mente colla velocità dei fotoni che raggiunsero il mio occhio: la luce era diventata tutto e nulla le sfuggiva. Un pensiero si formò, immediato e chiarissimo; quando cercai di trattenerlo, la frase che ne dissi apparve subito inadeguata a spiegarlo. "La luce splende nelle tenebre", pensai, sentendo che però in tal modo tradivo lo stesso significato che avrebbe dovuto esprimere. Lasciai che l'evidenza ritornasse a parlarmi e stetti fermo, come tutti, apparentemente seguendo gli esiti dell'intervento ma in realtà accogliendo l'illuminazione, fuori e dentro. Mentre la luce era ripristinata e l'azione di soccorso perdeva l'esclusiva dell'attenzione, restai quieto a godermi la conquistata conoscenza.

Seduto sul letto, le mani giunte, mi resi conto di avere tenuto a lungo il mio sasso. Mi stava in mano come l'avessero costruito apposta; allargai le dita e il lato piatto, colto alla luce di taglio, rivelò un sistema di rughe mai notate. Stupito all'ennesima novità di quell'oggetto tanto familiare ma pieno di sorprese, lo avvicinai per esaminare le forme: notai un punto centrale e dodici semplici righe a formare come dei raggi. Mi parve un'immagine luminosa, come potevo averla ignorata fin allora? Ma non l'avevo mai guardato in quel modo, limitandomi sempre a buttarlo su un piano senza esaminarlo veramente. Mi si era mostrato un pezzo alla volta, in ogni occasione offrendomi l'aspetto appropriato al momento. E il momento che stavo vivendo era legato a una luce che, piccolissima, aveva riempito di sé tutto l'ambiente.

 

L'impressione di cadere si rivoltò nel suo contrario. Era vero che ci fosse un infinito baratro oscuro, ma esisteva una luce che poteva arrivare agli estremi confini di quell'infinito, e se pare un'espressione priva di senso è così: tutto quello che ne posso dire risulta incapace di dar conto del suo significato. Se prima sentivo il nulla attrarmi, attrarre tutto, adesso sentivo che la luce si espandeva per ogni dove. In sé, non aveva origine, non aveva causa e, nell'immenso vuoto che era l'universo conosciuto, non si trovava ragione che per un lento spegnersi di ogni cosa. Contro ogni evidenza, invece, la luce era continuamente in azione.

Per la mia breve vita, ciò era sufficiente. Bastava per riempire il mio piccolo contenitore, darmi un luogo solido in cui esistere. Le ingiustizie e le speranze trovavano un equilibrio nuovo: se avevo ritenuto irreparabili le prime, ora le seconde erano senza limiti.

 

Ogni tanto guardo ancora il sasso, che da allora non mi ha concesso altri particolari. Guardo con occhi nuovi le luci e le ombre. La vecchia di quel riparo straniero e provvisorio dev'essere morta da tempo; mi chiedo talvolta se qualcuno ne abbia preso il posto e se altri siano stati guariti, e da cosa. Quanto a me, la stessa mia guarigione sembra espandersi, rendendo più probabile il buon fine di ogni azione che io senta portatrice di luce. Guardo intorno a me uno spazio già riempito e ancora da riempire; ovunque punti lo sguardo, ho davanti a me un viso, illuminato dalle stente braci di un fuoco forestiero.

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