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La Misericordia

All’annuncio della malattia, so che tutti gli sguardi non sono caduti su di me, ma sulla posizione della Misericordia. Di me, è caduto il cuore, ma solo io sapevo con certezza che non era il momento. Quando il sistema accerta la condizione scatta la procedura e, senza il bisogno di aiuti compassionevoli, senza la necessità di ulteriore sentenza, la persona termina la vita non più vivibile: un avvenimento automatico, per il caso che non si abbia alcuna possibilità di agire.
Non serve altro pronunciamento oltre a quello espresso una volta per tutte dall’umanità e dalla sua tecnologia: da ormai alcune generazioni è riconosciuto il diritto di uscire da una condizione giudicata indegna, e da quasi altrettanto tempo si ha l’apparecchio che riconosce l’avvenuto superamento del limite personale e agisce in conformità.
Soltanto io sapevo che ne ero ampiamente al di qua. Mi toccò rassicurarli, come avessi avuto la capacità di garantire il decorso favorevole. Unica esperta presente, la dottoressa dell’ospedale poteva solo dare un elenco di statistiche sull’efficacia delle cure, i possibili effetti collaterali, le percentuali di ricaduta. Ma né lei, né altri poteva dire le conseguenze: solo io potevo, colla Misericordia.

Non è questo il suo nome ufficiale, ma un miscuglio di terminologia medica e legale tanto ostico quanto difficile a ricordarsi. Si registra, in modo autonomo, un elenco di condizioni irrinunciabili per la propria sopravvivenza e a queste la macchina si atterrà. Per contribuire alla definizione, nei circuiti sono rilevati i mutamenti di opinione e gli stati d’animo, in modo da mantenere il punto di attivazione al livello ideale per la singola persona.
La decisione, così automatizzata, può essere messa in atto in qualsiasi condizione.

Un altro passo critico fu la permanenza in ospedale. Si temeva apprensione o sconforto: ti ritrovi in un mondo particolare con regole proprie che devi scoprire col tempo. C’è la tentazione di rivedere in senso più stringente le proprie condizioni per restare in vita; per me è stato faticoso dover dipendere da persone non scelte, alcune più attente al loro daffare che ai pazienti.
Eppure ne trovi tante capaci di risollevarti l’umore. Erano di aiuto, sulle prime, le convalescenti. Mi rispecchiavo nel loro sollievo, mi immaginavo recuperare il beneplacito alla mia esistenza dopo i momenti difficili che avrei attraversato, di spostare in avanti il confine dell’accettabile. Come le figure eroiche di qualche carboneria, imprigionate e percosse tutto sopportavano in nome di un avvenire luminoso; così io accoglievo i miei giorni squallidi sorreggendomi all’idea della vittoria finale.
Dopo un po’, non mi bastò. Sentivo che le mie traversie erano peggiori. E infine, che importava? Potevo non essere disponibile alla traversata che altri sostenevano, e chi mi avrebbe potuto biasimare? Giunsi così a disprezzare i casi patetici: quegli sguardi intensi, in quella che mi appariva un’esistenza ridotta a metà; ricordi di vita futura abbandonati, ma vite ostinate a proseguire.

C’era una donnina vecchissima, prosciugata dall’età e dalla degenza: si era ultimamente dovuta sottoporre a una cura, temuta da uomini grandi e grossi e di cui gli infermieri pronunciavano il nome sottovoce. Ebbene: lei se ne tornava al reparto con un sorriso affaticato ma sincero. Era una possibilità che avevo determinato essere oltre l’accettabile e lei invece, appena ripresasi, tornava la tipica nonnina accogliente per cui ogni cosa andava a meraviglia.
A lungo andare, tutto quell’eroismo finì col terrorizzarmi: avrei anch’io dovuto patire tanto? Scoprire a mie spese una capacità di sopportazione che non mi conoscevo? E all’opposto mi immaginavo, già pietosamente messe in atto le mie scelte, privare i miei simili di un’espressione intensa a mai più accompagnare ogni nuovo dolente respiro.

I dettagli del disturbo da combattere mi riuscivano oscuri. Sembravano roba troppo complicata per essere invece un pezzo di questa cosa qui che sono io, con la quale fin dall’infanzia pensavo di avere una dimestichezza priva di complicazioni.
Mi trovavo di fronte a meccanismi esoterici; la biologia rappresentava me e contemporaneamente i miei problemi, cioè quello che massimamente sentivo estraneo e pure ostile.
Sostanze di cui mai avevo sentito il bisogno si rivelavano essenziali per il mio benessere; altre, altrettanto ignote, lo minavano. Il tutto in una lotta di cui leggevo le cronache nei referti medici, estranei come i giornali da cui ricavavo informazioni sulle guerre di altri continenti.
Sostanze trasportate al vento di esplosioni cosmiche, meticolosamente raffinate al fuoco delle stelle, sciolte in dosi venefiche e atterrate, con precisione più che millimetrica, nel solido di un corpo recalcitrante: troppo onore, essere tanto bersaglio.
Ero furente con la chimica, la fisica, le reazioni nucleari di stelle scomparse, volte solo a darmi una particella difettosa, un meccanismo indisciplinato. Avrei voluto strapparmi via di dosso quei legami, al modo di certi pazienti che, in momenti di furia, si strappano elettrodi e cateteri e flebo.
Io avrei voluto disconnettermi dall’universo.
Buffo, pensando al tempo in cui mi pareva cosa buona di unirmici, meditando. Quante volte ho cercato, e pensato di sentire, la carezza di un cosmo amichevole e potente, dal quale attingere solo cose buone! Ora che il collegamento assumeva la forma di una malattia, rifiutavo di immedesimarmici: non ero io, quella. Era l’infinito che mi tradiva.
La mia fisicità, invasa dal nemico, non mi apparteneva. Ho creduto che fosse sancito allora il momento di attivarsi.
Fu così che la Misericordia, massima espressione del proprio personalissimo volere, cominciò a pesarmi. Avere consegnato allo scibile della tecnologia il compito di riconoscere il mio punto di rottura, me lo faceva sentire fuori di me nonostante siamo tutti convinti che avrebbe solo obbedito al mio volere inappellabile.
Mi fermavo, quasi non respirando; cercavo di interrogarmi nel profondo a scoprire una possibile difformità di valutazione. Avevo paura, una paura a due teste: una con le mie fattezze implorava che la Misericordia si attivasse; l’altra senza forma, perché la Misericordia non ne ha, si attivava me nonostante. E io temevo entrambi gli eventi.

L’andamento ha preso questo ritmo ineguale, un andirivieni tra entusiasmo e sconforto.
E ogni volta la stessa domanda: è questo il momento?
Anni fa, come tutti, enunciai le condizioni alle quali ritenevo inaccettabile di continuare a vivere. È un tema affrontato pubblicamente: anche i ragazzini dicono la loro; per questo la legge impone di raggiungere una certa età prima che venga installato il dispositivo.
Quante volte ho cambiato idea! Perdere un lavoro, un amore, la gioventù, la casa... sono buone ragioni? Ci furono epoche in cui credevo di sì; da quando la diagnosi aveva preso la sua formulazione definitiva, sembrarono ridotte a minuzie. Ma tutte quelle cose, perdute insieme, potevano pesare più della loro somma.

La malattia regredisce, il ricovero ha termine: il benessere riprende a lusingare colla promessa di piaceri futuri.
Sorge una complicazione: si sperimenta una depressione, si perde una speranza.
Mi trovo ora sul ciglio di un baratro. Intorno a me, molti sono già precipitati, gente che ho invidiato per una ragione o l’altra.
Non importa se una malattia passa, se si riguadagna l’ammissione al circolo dei privilegiati a meritar di vivere: la paura rimane.
È facile stabilire un confine preciso quando c’è un’interruzione e si crea una differenza chiara e riconoscibile fra la vita sperata e la condizione presente; ma i confini svaniscono, nella misteriosa complessità del vivere.
Nulla si dice in merito. Dell’ormai lunga serie di interventi misericordiosi non è dato altro che il numero, senza davvero impegnarsi a conoscerli. Dopo i tempi della polemica prima della sua istituzione, la Misericordia è scesa in ombra; una pratica amministrativa giusto per l’impianto e la definizione dei contenuti, tutto il resto affidato alla volontà della singola persona e sottratto, per legge e consenso popolare, al giudizio altrui. Non sono esplicitate le ragioni di alcuna fine, ciò che si riterrebbe violazione del privato.
Dei casi evidenti, quelli per cui si combatté ottenendo il diritto, non si discute. Ne abbiamo visto diversi su cui era facile concordare. Ma poi capitò Leonora, incapace ormai di tutto e anche di esprimersi, per cui la Misericordia non interveniva. Un padre disperato continuava a insistere che il dispositivo era guasto implorando interventi, ma lo stesso principio che dava libera scelta impediva alla legge e alla medicina ogni azione, al di là di verifiche tecniche senza esito. Quel caso sì che infiammò gli animi! Tirammo tutti un sospiro di sollievo quando un peggioramento concluse la vicenda.

Una malattia può non essere troppo. Ma: una malattia e un treno perduto? E una malattia e un treno perduto e un affare sfumato? E una malattia e un treno perduto e un affare sfumato e una relazione conclusa? E una malattia e un treno perduto e un affare sfumato e una relazione conclusa e un febbrone di tre giorni? Poteva, la Misericordia, convenire coi pensieracci di una giornata a letto coll’influenza?
Ogni stropicciamento, motivo occasionale della fine. Non potevo accettarlo e mi spaventava.

Così, un aumento di problemi farebbe decidere, ma questo è solo metà del percorso. Perché all’insieme si può sottrarre un sorriso, una musica, un contratto favorevole, un evento gradito, un affetto nuovo, un oggetto di pregio. Tutto: dall’estremo del più poetico idealismo alla banalità del bene di consumo, fosse anche un pacchetto di patatine... Mi ricordo quando un conoscente, molto ricco, espresse invidia per il godimento di due operai nell’addentare il loro panino. Allora ne avevo pensato tutto il male possibile, ovviamente. Eccomi invece qui a volermi convincere dell’importanza di dettagli mai considerati. Facile, si dirà, per me che ora sto meglio.
E intanto la Misericordia soccorre la persona incurabile ma anche la curata, la povera ma anche la benestante, la decrepita e l’ancor giovane; tutte in obbedienza al loro volere, con la benedizione del sentire comune.

Non lo sa nessuno: non bastandomi avere modificato le norme, ho staccato la spina. In barba a quel che pensa la società.
 

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