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La Nebbia

“Porca puttana!” esclamò Uriele.

L’eco dell’imprecazione si spense nella costernazione silenziosa. Giuseppe si voltò nuovamente verso la valle, ormai invisibile. Per la prima volta da almeno vent’anni, la nebbia aveva superato le colline che, attorniando l’altipiano, avevano rappresentato un baluardo al disastro della regione inferiore. Quell’ultima riunione si concludeva nel disagio.

 

Erano rimasti diversi giorni, forse troppi, a contemplare il fenomeno. Giuseppe ricordava, sentendosi perciò in colpa, quanto gli fosse piaciuto l’effetto multicolore dei gas, mentre la nebbia filtrava i raggi del sole al tramonto. Le correnti, capaci di superare la corona protettiva, portavano sbuffi in alto fin quasi alle nuvole, apparentemente piegate a ricevere i nuovi ingredienti della futura meteorologia.

La prima volta, se ne era tornato a casa senza sapere reprimere un sorriso beato che, di fronte ai presenti, cercava di storcere affinché sembrasse una smorfia di preoccupazione. Mentre tutti si allontanavano, una bambina aveva sussurrato: “Guarda!” a una compagna più piccola, come aspirando lo stupore. Lui si era sentito affine alla bimba; poca consolazione sentirsi ancor dotato di naturale apprezzamento del bello. Ebbe compassione dell’ingenuità infantile, ma la ritenne una prova della bontà umana, quasi ovunque sopraffatta dalla catastrofe.

Altro tempo era trascorso nella valutazione delle conseguenze. Era ben nota la situazione in basso: il traffico da laggiù giungeva come un respiro catarroso, appena udibile e nondimeno sempre presente. Una popolazione irreggimentata e scontenta sopportava agenti corrosivi, dispositivi antigas, il caos di un’umanità ammonticchiata, limitazioni alla libertà motivate dalle condizioni precarie e dai disordini mai sopiti, in giro per il mondo.

Se ne erano tenuti lontani, come dal loro paese si tenevano lontani gli abitanti delle città: troppa fatica inventare produzioni agricole all’aperto, non abbondanti, difficili a vendersi per i mercati in mano alle grandi aziende; finché la loro speranza aveva fruttificato e li aveva resi capaci di esportare beni.

 

Tutto il paese era convenuto una prima volta nella “cattedrale”, il vasto locale annesso alla casa di comunità, originariamente pensato per eventi culturali.

Giampiero Santi, uno degli ultimi arrivati, con la famiglia aveva aiutato quella di Yussef, da sempre incaricata per tacita decisione collettiva della disposizione delle sedie. L’amplificazione era invece la specialità di Sandra, una fra le colonne della comunità.

Fu Gloria, esperta meteorologa, a spiegare il fenomeno.

“Una volta ogni qualche anno, arrivano venti da nord-est. Nel passato, ciò produceva una diminuzione delle temperature, con lo spostamento di masse d’aria verso sud”.

Gloria faceva scorrere immagini su una mappa dove si muovevano linee blu che diventavano arancione prima di cambiare rotta. A fianco, piccoli grafici a indicare le variazioni di temperatura e pressione.

“È il meccanismo che ha preservato il clima del nostro altipiano. Nonostante la quota, era abbastanza mite da permettere le coltivazioni per cui era famoso. Forse c’è ancora qualcuno che lo ricorda?”

Giampiero intervenne.

“Come sapete, i miei nonni erano di qui. Lei parlava con nostalgia di quando, da piccola, aiutava nei campi per la raccolta. A sentir lei, si sarebbe detta un’era di abbondanza e beatitudine”.

Tacque. Non finiva mai di commuoversi, ricordando il rimpianto loro per i giorni lieti dell’infanzia.

“Ne parlava anche mio padre” disse un’altra donna. “Diceva che erano molto fieri e si sentivano superiori alle altre valli” concluse sorridendo.

“Già, e intanto nelle statistiche eravamo considerati un’area depressa” ironizzò un giovane, i cui tratti denunciavano un’origine ben lontana da lì. Ognuno colse con piacere il tono di identificazione dell’intervento: erano tutti fieri delle loro scelte.

Gloria riprese l’esposizione. La mappa coi confini del paese, le coste e i rilievi, fu sostituita da un’altra, indicante le masse di gas secondo la composizione. Erano queste, nella loro forma, a ricordare l’orografia sottostante.

“Oggi, le stesse correnti mancano della forza necessaria a farsi strada. La conseguenza è che si formano zone di gelo che, per conduzione, producono abbassamento termico nelle regioni intorno, a volte con ritardo di mesi. È per questo che le temperature in valle finiscono per essere invece torride e l’aria è sempre asfissiante. Lo vedete nell’animazione”.

Parte della spiegazione era nota, ma vederlo in tutta la sua chiarezza indusse un brivido in Giampiero come in tanti altri.

“E come la spazziamo via, la nebbia?” chiese un anziano.

“Purtroppo non abbiamo molte risorse” rispose Gloria. “Di solito, questa è la stagione in cui godiamo di correnti da nord che aiutano la corona di colline a trattenere i fumi. Il loro peso, poi, finora ha impedito che salissero fin qui”.

“Ma le pale, non servono?” chiese una ragazza.

“È vero. Sebbene concepite per produrre energia, si sono rivelate utili anche per favorire le correnti benefiche. Purtroppo non stiamo ottenendo l’effetto sperato”.

“Allora avevamo ragione a chiederne altre” insisté la ragazza. “Lo dicevamo da tempo che non si sta facendo abbastanza.”

“Greta ha ragione” disse Uriele. “Questi ragazzi non li ascolta nessuno. Io lo dico da sempre: se non agiremo, il clima ci inghiottirà”. Un coro di voci giovanili sorse a sottolineare l’intervento.

“C’è qualcosa che possiamo fare” disse Gloria, avviando un nuovo filmato. “I lavori che abbiamo iniziato sono appunto progettati per favorire lo sfogo delle correnti da fuori”.

La riunione prese strade multiple e sovrapposte. I più concreti si dedicarono a precisare i piani a

lungo termine.

 

Nei mesi seguenti, la vita di ciascuno conobbe uno scarto. Si accelerarono scavi, si incrementò la costruzione di canalizzazioni, sia per l’acqua che per l’aria. Avevano copiato i metodi edilizi che, in paesi più a sud, da secoli garantivano il ricambio dell’aria nelle costruzioni, sfruttando il moto convettivo. La loro regione era un piccolo gioiello di resistenza nel caos del disastro climatico. Non contenti dell’autosufficienza energetica e produttiva, erano riusciti a vendere alimentari e anche a far consulenze per altre regioni.

I ragazzi, che non trovavano lì una generazione di vecchi retrogradi contro cui inveire, esercitavano il senso critico nei singoli progetti, nondimeno lieti di collaborare ai miglioramenti.

 

Giuseppe doveva solo trasportare. Se necessario, si fermava per aiutare chiunque, ma passava ugualmente un gran tempo in giro per la regione. Conoscendo ogni via e tratturo, un senso di fastidio lo coglieva, lungo il confine, a vedere che gli arbusti si erano seccati, in una linea netta a distinguere la zona salva, visibilmente arretrata rispetto all’anno precedente. Più di lui si inoltrava Uriele, tenacemente impegnato alla manutenzione di canali e impianti.

Uriele, adulto e misogino, non vantava competenze formali in nessuna delle attività tecniche in cui aveva acquisito dimestichezza. Era un factotum della tecnologia, tutti ne riconoscevano l’utilità. Era scontroso, irascibile, ma tanto rapidamente si risentiva quanto in fretta ritornava tranquillo, impegnato principalmente nei suoi incarichi.

Giuseppe lo vide, giorni dopo, col suo passo zoppicante, il casco regolamentare, giù dal furgone verso una chiusa da controllare. C’era un ragazzo con lui, uno spilungone pallido e serio, sempre sui libri, ultimamente coinvolto nell’impegno di alcuni giovani per innovare il sistema ecologico. Troppe le proposte avanzate per poterne fare un piano concreto. Giuseppe si rattristava per come li vedeva frustrati.

 

Uriele era di fianco a Sandra, infine, mentre lei esponeva gli interventi avviati e quelli in programma.

“Come vedete, per tutto ciò dobbiamo lasciare Casavecchia: è inutile sprecare risorse lì”.

L’ipotesi aveva suscitato polemiche. Nessuno era rimasto dei vecchi abitanti di Casavecchia, ma era il vero nucleo originario della valle, simbolo delle loro radici.

Più di tutti era contrariato Yussef.

“Quando passo di lì, sento come il segno della mia adozione a cittadino di qui. Quella casa ci ha accolti nei primi giorni, era il luogo concreto dell’ospitalità che abbiamo trovato. Non potete immaginare: eravamo al freddo, sotto un tetto rovinato, ma felici perché avevamo trovato un paese accogliente”.

Yussef, con tutti i suoi studi, si era fatto muratore e aveva rizzato più di un alloggio a Case Nuove. Giuseppe si perse le battute seguenti, mentre ricordava il modo in cui sua moglie aveva accolto l’ennesima famiglia di nuovi arrivi, scherzando con loro come fossero stati vecchi amici.

Tornò al presente quando ci fu la votazione: le decisioni furono prese con molte astensioni, nella consapevolezza della loro inadeguatezza, e fu allora che Uriele era uscito con la sua imprecazione.

 

Quella sera, zitti zitti, Giuseppe e Uriele montarono sul camion, indossati guanti, casco e occhiali sopra agli abiti pesanti. Fecero finta di dirsi che c’erano un intervento di Uriele, una consegna di Giuseppe, ma dopo deviarono fino a Casavecchia senza commenti.

Mentre Giuseppe faceva finta di sistemare il casino sul cruscotto e controllare la carica delle batterie, Uriele scese colla torcia. I passi pesanti, giunse a toccare i resti di una porta, si voltò e con voce cavernosa disse alla notte: “Io da qui vengo!”.

Subito si girò: dal boschetto sbucò la famiglia di Yussef, avanguardia di altri convenuti. Sandra reggeva un lume, Greta una candela.

Lo scalpiccio si tacque, nessuno parlò. Bardati come spiriti sbucati da tempi di guerra, riconoscibili pur nel chiuso delle protezioni individuali, il cui peso dava ai movimenti un ondeggiare dal gusto rituale.

Uriele, levata la torcia, ne sciabolò la luce mentre il tramonto innaturale sembrò amplificarne i raggi. Al segnale, in sospiro collettivo la folla si ravvicinò; timidamente si conguardò ciascuno, poi presero la via di casa. Si vergognavano reciprocamente giustificandosi il cedimento sentimentale, mentre sorrisi dissimulati accompagnavano il ritorno.

Lasciato Uriele, Giuseppe fermò il camion a cento passi da casa. La sua famiglia celebrava in altro modo la sua comunione, nella preparazione della cena.

Un fulmine illuminò il panorama e la speranza ne aumentò la luce: se avesse piovuto, si sarebbe goduto un altro ciclo di rimedi all’aria stagnante. Giuseppe immaginò le piantine riergersi liete, nelle coltivazioni sotterranee. Erse il capo in conformità e si affrettò a casa.

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