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Alla conquista dell'impero

Questa è la storia di un uomo entrato un giorno per quella frontiera che da generazioni ogni abitante dell'impero guardava con timore. Da quella frontiera, un giorno, sarebbe arrivato un uomo capace di distruggere il regno. Questo diceva un'antica profezia. Entrò ignorato da tutti, per cambiare di ognuno la storia.
Egli giunse montando un cavallo allevato da lui stesso, ricco soltanto del suo orgoglio e un arco lungo, famoso al suo paese. Poiché era solo, nessuno gli impedì di entrare nell'impero, come non si impediva a quegli straccioni che con le loro famiglie venivano, cercando terre un po' meno aride, inverni meno crudeli. Trovavano la crudeltà di un imperatore che li disprezzava come dei selvaggi meritavano.
Un selvaggio pareva anche quell'uomo, benché la fierezza del portamento avesse fatto abbassare più d'uno sguardo alla milizia incrociata alla frontiera. Ma anche i soldati dell'imperatore non meritavano maggior considerazione dei barbari su cui dovevano vigilare.
L'uomo non si attardò al nord, là dove quasi tutti gli immigrati si fermavano per una precaria sistemazione. Violando tutte le leggi, visse di caccia o d'elemosina, quest'ultima volentieri concessa finanche dall'ultimo dei contadini a quel personaggio che sembrava costantemente aprire un muro avanti a sé mentre passava. Giunse egli infine in vista della capitale, seppe reprimere lo stupore alla vista della profusione di torri, della varietà di templi, dell'altezza di mura che nessun altro scopo avevano, ai suoi occhi, se non di avvicinare al cielo, poiché nessun esercito allora conosciuto avrebbe saputo giungere fin lì.
Penetrò l'abitato con la medesima alterigia mostrata per tutto il viaggio; non per ostentazione ma essendo quello, data la nobiltà dei suoi natali, l'unico atteggiamento che conoscesse. Tanto più risaltò agli occhi di quanti, pur nello squallore di una vita da schiavi, erano convinti di essere i soli umani degni di questo nome, per appartenere all'unico regno civile del mondo, sudditi dell'unico imperatore degno di venerazione.

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Nel palazzo imperiale, nei padiglioni privati, nelle sale interne, in mezzo ad un cortile riservato, una principessa meditava, quello stesso giorno, su storie di poco conto, ma capaci di turbarla. Il suo destino, dicevano a corte, era di appartenere ad un uomo che avrebbe retto l'impero, ma le sue storie dicevano, un cuore, appartenere solamente a chi avesse avuto l'ardore per conquistarlo.
Nessuno, però, avrebbe mai osato: come tutti i membri della famiglia imperiale, lei anche aveva un ruolo. Era destinata a chi avesse occupato un posto preciso nella gerarchia del potere; non sarebbe stata premio alla conquista d'altro che di una carica. Questo era l'uso da generazioni e così sarebbe stato per le generazioni a venire.

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Ma l'uomo, convocato al palazzo imperiale quella sera stessa, molte cose diverse conosceva, e molti cambiamenti avrebbe apportato a quelle usanze. Di ciò, nessuno si rese conto subito, ché altrimenti non sarebb'egli restato vivo neppure fino all'alba successiva.
La voglia di novità, e il bisogno di distrarre per poco la corte dagli intrighi del momento, giunti ad un punto pericoloso, diedero modo all'uomo venuto da lontano di esporre, non senza una buona dose di barbarico vanto, la semplice vita da cui proveniva, le immediate esigenze che spingevano, fin dal seno materno, a lottare, concludendo però, e fu istante di turbamento, col racconto delle leggende avite, di come queste dicessero di un impero che non poteva essere conquistato se non distruggendolo.

 

La principessa vide il suo sguardo, ed era quello di un uomo che sapeva guidare. A lei era stato detto che suo destino era farsi guidare da un uomo e decise così, alla luce di quello sguardo, che sarebbe stato quell'uomo a guidarla.
"... ho avuto il tempo di ascoltare il tuono..."
Lei non aveva mai potuto udire se non il contenuto rumore della corte, di quella porzione di corte assegnatale. Per tutta la serata, e per i giorni a venire, desiderò introdurre quell'uomo negli ambienti a lei cari, perché gli unici conosciuti. Ma non si poteva mutare l'etichetta...

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Si potrebbe raccontare la storia di come il barbaro fu catalizzatore di cambiamenti: di come ogni eletto del Palazzo pensò di usarlo per i propri scopi e come, uno ad uno, caddero tutti, vittime dei cambiamenti prodotti. Ma è una storia troppo complicata questa, fondata su leggi istituite con l'impero e ritenute eterne, ma che per il barbaro dovettero mutare. Storia di tradimento e congiura, troppo uguale ad ogni altra.

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È questa anche la storia di come una donna trovò il modo di sfuggire al suo destino, inducendo quell'estraneo a sbarazzarsene per lei, in un duello. Grande novità venuta da luoghi selvaggi, di eliminare senza delazione o veleno, usando poco stile e nessuna filosofia. Innovazione che scosse l'esausta consuetudine, talché per anni non si seppe opporvi resistenza. Storia di come i calcoli dettero nomi nuovi agli antichi segni che magi compiacenti consultarono per lui, il forte e fiero venuto dalle steppe, finché a loro convenne.
"...è un segno di novità... io sono tutte le novità di cui ho bisogno!"
Di nuova dinastia si parlò in quegli anni, sottovoce, temendola o temendo l'irata reazione della vecchia.
L'uomo altero, uso alle armi, scosse un esercito che da tempo dormiva, prima attizzandone l'orgoglio, poi piegandone il fuoco al suo volere. Mosse guarnigioni, premiò soldati e rimosse generali, finché giunse il momento in cui capì, sgomento, di non aver nemici. Ovunque guardasse, tutt'intorno, altro non vide che il medesimo impero, fin dove il mondo era conosciuto.
Sapeva, egli, di un'altra terra oltre quei confini, ne ricordava la lingua e i costumi, tutto rimasto come un corpo estraneo in lui, in quel ch'era diventato. Non vi sarebbe potuto ritornare da conquistatore, abbigliato come coloro che credeva di saper conquistare.

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Ancor più lunga storia si potrebbe narrare, di come l'uomo più forte dell'impero finì succube di una donna, credendo di averla conquistata; di come scoprì d'essere schiavo di quell'impero, troppo vasto di città e storia e popoli e cultura, anziché dominarlo.
La sua spada divenne ridicola, la sua furia inopportuna, l'uomo che mai s'era piegato fu sepolto nei riti di corte; i suoi gridati ordini, eseguiti con zelo, si volgevano regolarmente al volere di lei, che non parlava. Un silenzio temuto ben maggiormente delle minacce, sempre più vacue e sempre meno avverate, di un guerriero impotente.
Si può dire di come solo dopo anni egli si ricordasse di visitare una stalla, dove non trovò più il cavallo che fino al giorno prima l'aveva atteso inutilmente, forzato a compiti indegni del suo nome.

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Alle frontiere del nord, infine, s'ammassò un esercito. Per due generazioni s'era tramandato nella regione il racconto di come il figlio maggiore d'un capo glorioso fosse partito per mai più tornare ma la strega del bosco vicino, sua parente pazza, l'avesse dato per anni ancor vivo, perché in caso contrario l'avrebbe rivisto in sogno. Due generazioni bastarono, perché i nomi divenissero fiaba, e la partenza un richiamo. E quando il consiglio dei capi stentò a prender decisioni, meglio non si trovò che unirsi al più forte tra loro.
Fu un tempo in cui venti di novità soffiarono anche in quelle terre oscure, portando i profumi e le illusioni di lande sconfinate di cui si volle penetrare i segreti. Partirono in grande numero, non tanto sfuggendo il clima quanto l'antica saggezza che aveva perduto forza e forza nuova si cercò, radunandosi intorno ad un grido di guerra.

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Perduto il comando, scordato quel vigore che gliel'aveva dato, incapace perfino di levare lo sguardo già terribile, un resto di tempi lontani non poteva che un'ultima tenace, inutile fedeltà: a una donna che l'aveva conquistato allorché gli ebbe chiesto, coi segni di un grande timore, di non tradirla mai e questo faceva almeno coll'intenzione, nient'altro restandogli di quando nel suo corpo scorreva un sangue temprato nella vastità di praterie ostili.

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Chiuso in una tomba di pietra l'unico legame con quel mondo mai conosciuto, cancellato da una memoria ormai consunta ogni ricordo d'aver desiderato altro che il potere, privato il Palazzo d'ogni potere tranne il suo una regina, tanto vecchia quanto le mura della sua reggia, tesseva legami in tutto il paese per dare forza al suo regno, mentre al confine già si scorgeva un brulicare deciso a piegarlo.

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